giovedì 2 giugno 2016

La libertà nella lingua

« [704] L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo esperto ed avvezzo al commerzio civile, si diporta francamente e scioltamente nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione. Laonde la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza. La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli scrittori. Perché quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi della lingua, non si portano liberalmente, anzi da schiavi. Perché non possedendola intieramente e fortemente, e sempre sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova. E quelli che si portano liberalmente, hanno quella libertà dei plebei, che deriva dall'ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene. E questi in comparazione [705] degli altri sopraddetti, si lodano bene spesso come scrittori senza presunzione. Quasi che da un lato fosse presunzione lo scriver bene (e quindi l'operar bene, e tutto quello che si vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall'altro lato scrivesse bene chi ne dimostra presunzione. Quando anzi il dimostrarla, non solamente in ordine alla buona lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale scrivendo si possa incorrere. Perché in somma è la stessa cosa che l'affettazione; e l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza. (18 febbraio 1821). »

Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri.


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