mercoledì 16 settembre 2009
Un ricordo falsato
Firenze, stazione di Santa Maria Novella, una quindicina d'anni fa, una mattina di tardo autunno. Aspetto al capolinea il treno intercity per Milano per poi da lì salire sul Cisalpino, destinazione Montreux, dove andrò a trovare quella donna che, qualche anno dopo, sarà mia moglie. La mia valigia è pesante, più di libri che di altro. Io indosso un loden grigio scuro, austriaco, e un simil Borsalino made in Italy della defunta Cappelleria Giramondi di Arezzo. Improvvisamente, ecco che davanti a me passa, indossando un loden simile al mio e un Borsalino vero, che contrasta la splendida capigliatura e barba bianca, Giovanni Raboni. «Cazzo, mi dico, è l'occasione buona». Tra i libri dentro la mia valigia, infatti, v'è anche una mia raccolta di versi, Il lestofante - per l'esattezza: un libro fatto in casa - che intendevo portare a Losanna per fare un regalo a un mio caro amico letterato. Ho una copia sola, ma non importa. Il fatto poi che Raboni si metta vicino a me ad aspettare, immagino, lo stesso treno, mi offre l'occasione giusta.
«Buongiorno, mi scusi, lei è... ehm... Giovanni Raboni, vero?». E lui, gioviale: «Sì, perché ci conosciamo?». E io: «No, sono io che... ehm... la conosco. Voglio dire, la riconosco. Sa, ho visto sue alcune foto sparse su qualche rivista, ho letto soprattutto qualche suo libro, seguo i suoi corsivi sul Corriere». E lui, sorridente, stringendomi la mano: «Ah, mi fa piacere» e l'altoparlante annuncia il treno in partenza «va a Milano anche lei?». «Sì», rispondo timidamente. «Di cosa si occupa?» mi domanda così a bruciapelo. Io balbetto la mia umile condizione di studente-poetucolo e un po' pitocco. Provoco una mezza risata. Intanto arriva trafelata, coi biglietti, Patrizia Valduga, la sua compagna poetessa, vestita tutta di nero, da sensuale dama dark, e lui, come se niente fosse: «Patrizia, ti presento il signor...»... «Massaro, Luca Massaro», dico io abbastanza imbarazzato. Stringo l'algida mano guantata di tulle della Valduga, e lei replica con un mezzo sorriso ombrato di scuro. «Bene» dice Giovanni Raboni «occorre salire, altrimenti il treno parte senza di noi.* Sarebbe piacevole proseguire la conversazione in treno, se è d'accordo, Luca». Così mi ritrovo in viaggio da Firenze a Milano seduto vicino a Raboni e alla sua dama, a parlare, a conversare di letteratura, poesia, politica. Io oso persino mostrargli impudicamente i miei versi, che sono apprezzati e letti persino ad alta voce dalla voce suadente della poetessa.
Le tre ore di treno sembran cinque minuti. È tempo di scendere e di salutarsi. Raboni mi chiede addirittura un recapito telefonico, mi farà sapere se il mio Lestofante avrà qualche chances di pubblicazione. Io, estasiato, ringrazio e saluto cordialmente la mirabil coppia di poeti. Col cuore gonfio di speranze impudiche di fama letteraria, m'avvio alla coincidenza del Cisalpino. Di lì a poco salgo di nuovo in treno, mi accomodo in un posto solitario, apro la mia valigia in cerca di un libro. Porca miseria, il mio Lestofante è qui, e ne ho preso una copia soltanto.
*Le cose fin qui narrate corrispondono al vero. Però, Raboni e la Valduga salirono subito in una carrozza di Prima Classe, e il poeta non mi fecel'invito che ho immaginato, altrimenti avrei pagato volentieri il supplemento per accomodarmi vicino a loro.
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