Chi parla ha da dire
le cose che dice e forse no
o forse altre. Ma è un fatto che chi tace
lascia che tutto gli succeda e quel ch'è peggio
lascia che quello che hanno fatto a lui lo facciano
a qualcun altro.
Giovanni Raboni, Le case della Vetra (1955-1959), in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2000
Piccolo componimento poetico che mi serve per dire, per confermare che io scrivo affinché non mi sia scritta addosso una storia che non mi appartiene, affinché qualcun (altro) non dica che io non l'avevo detto che io ero così e così, e volevo questo e quello, e mi arrabbiavo se certe storture della vita prendevano piega nella mia. Poi desideravo, ma vabbè, questo è un altro discorso, mica sempre si devono manifestarli i desideri, altrimenti si diventa stucchevoli, ci vuole una certa discrezione, un po' di tatto. Io per questo sto spesso zitto, non tanto, il giusto, giusto il tempo necessario per pensare prima di dire qualcosa, non come ora che scrivo senza pensare esattamente a cosa. L'importante è, come sostiene Raboni - il quale, ricordo, è l'unico poeta italiano dei grandi del Novecento a cui abbia stretto fisicamente la mano, cordiale, stazione di Firenze, la Valduga a fare i biglietti e io con la mia piccola plaquette in valigia che portavo a una ragazza improbabile - non lasciare che tutto mi succeda e non lasciare che quello che, eventualmente, mi lascio succedere, ovvero subire, non venga fatto ad altri, perché il silenzio è una brutta bestia e meno male esistono finestre. Io uso questa, volentieri, a pianterreno, sempre disponibile, qui.
Questa è la mia politica, insomma. Estera e non solo.
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