«Ciò che sarà, come potremo esprimerlo,
quale parola potrà mai difendere
la felicità dell'uomo - che profuma
di pane integrale - se le regole
destinate ai nipoti futuri
restano ignote alla lingua dei poeti?
Non ce l'hanno insegnato. Non sappiamo come
Libertà e Necessità far coincidere.»
Czesław Miłosz, Trattato poetico, (1957) Adelphi, Milano 2011 (traduzione di Valeria Rossella).
Normalmente compro pane bianco, ma stamani ho visto sul bancone della forneria della coop un mezzo pane scuro, ho domandato, mi hanno detto «fatto con la farina integrale macinata a pietra», ma sai che, lo prendo, me lo incarti, grazie, ecco casa, prendo il burro (lo uso con il pane il burro non avendo una Maria Schneider alla portata) ed ecco qua, che buono questo pane, che sapore, che profumo, sono felice? No, sono contento, ecco, e pensavo alla sécheresse quest'anno quanto grano in meno e quante bocche in più pianeta avrai da sfamare, cosa importa, qua in Occidente i mercati ci lasceranno sopravvivere mica come in India o in Bangladesh, dove le regole destinate ai nipoti futuri sono: prendetevi a brani, o sennò andate dai buzzurri come quel trippone di Tata, a schiere, sbranatelo vivo come le tigri del Bengala, non abbiate paura, scapperà in elicottero ma la Jaguar sarà vostra.
- Accidenti che poeta rivoluzionario! mandare gli altri a lottare per conto proprio mentre tu comodo te ne vai mangiando pane e burro.
- È che non me l'hanno insegnata i miei padri la rivoluzione. Mi hanno fatto crescere nella bambagia, mi hanno offerto studi e la speranza di vivere a debito. I miei padri mi hanno detto sempre di stare calmo che tutto si sistema, che una guerra bastarda come quella ultima europea mai più, mai più accadrà, come scrivere poesia dopo Auschwitz, come mangiare pane e burro dopo Auschwitz, come pretendere di essere felici dopo Auschwitz, come far coincidere Libertà e Necessità dopo Auschwitz. Adorno! Adorno! Quanto vorrei dirti “lèvati di torno!” Non posso:
«L’impressione
che, dopo Auschwitz, si ribella ad ogni affermazione di positività
dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo, ingiustizia nei
confronti delle vittime, la resistenza contro la possibilità di
spremere dal loro destino un qualche senso per quanto esiguo, ha un
suo momento oggettivo dopo eventi che ridicolizzano la costruzione di
un senso dell’immanenza, irraggiato dalla trascendenza posta
affermativamente. Una tale costruzione affermò la negatività
assoluta e collaborò ideologicamente alla sua persistenza, che
comunque è realmente implicita nel principio della società
esistente fino alla sua autodistruzione. Il terremoto di Lisbona, fu
sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana, e la
catastrofe ancora comprensibile della prima natura fu minima
confrontata con la seconda, sociale, che si sottrae all’immaginazione
umana, preparando l’inferno reale sulla base della malvagità
umana. La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è
successo ha mandato a pezzi la base dell’unificabilità del
pensiero speculativo metafisico con l’esperienza. Ancora una volta
trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del rovesciarsi della
quantità in qualità. La morte, con l’assassinio burocratico di
milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto
da temere. Non c’è piú alcuna possibilità che essa entri nella
vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo
corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e piú misera
cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non
moriva piú l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve
attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è
l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono
omogeneizzati, “scafati” – come si dice in gergo militare –
finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della
loro completa nullità.» Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 326-327
Tutto d'un fiato, Adorno, rileggendoti quattrocento metri a piedi, in compagnia di frasche amiche.
«Ancora una volta trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del rovesciarsi della quantità sulla qualità».
Cos'è la quantità? Il denaro.
Cos'è la qualità? La vita.
Bestie che siamo noi occidentali: dopo (forse, terribilmente forse) essersi liberati dal giogo del trascendente (papaccio ladro permettendo) ci siamo incatenati a una nostra immanentissima invenzione: money (it's a gas).
Come stanno i mercati, il petrolio, l'inflazione, la disoccupazione, l'inquinamento, la criminalità (micro e macro), cosa passa insomma sotto l'atmosfera, in questa aureola di vita che s'assottiglia sulle nostre testedicazzo?
Basta, jazz mentale finito. Il pane che profuma è ancora alla mia portata. Per oggi va bene così.
2 commenti:
quando sono andato a un convegno in giappone (sapporo) seull'etica applicata (io per parlare di doping), c'erano 3 indiani nella sessione di business ethics. erano tutti vestiti uguali, 2 uomini e una ragazza, lei in tailleur, ma stessi colori e stesso stile. sembravano laureati in economia. raccontavano delle best practices che aumentavano la produttività, e dopo aver parlato del metodo toyota sono passati a quello tata. enormi fabbriche, dove il lavoratore può andare dal capo a dire "ehi, quello là non sta facendo la sua parte". ed erano veramente contenti di questa possibilità, che unisce la ricerca della produttività capitalista (individualista) con il comunitarismo. a me l'idea della possibilità della delazione non è che sembri una gran conquista...
Il tuo cosmopolitismo è una "merce" che uno Stato serio (mediante i ministeri Istruzione, o Cultura, o Esteri) coltiverebbe con seri finanziamenti, anziché assumere fascistelli diplomatici del cazzo solo perché figli di papà.
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