Anche se non la condivido, io la comprendo la posizione cattolica riguardante i temi sensibili dell'aborto e dei test prenatale. La capisco e non mi scandalizzo se dalle pagine di Avvenire un editorialista (Carlo Bellieni, non so chi sia, non importa) rampogni
«la cultura che si respira in occidente riguardo la vita prenatale».
È un suo diritto, va bene, concediamo, però non può dire cose false impunemente, come quelle che l'occhiello titola:
«Un altro triste test anti-down»
giacché se in Svizzera è stato scoperto «un test volto a individuare prima della nascita chi è down e chi non lo è» questo non vuol dire che tale test sia anti-down più di quelli che già da anni esistono. È da meschini dire, di seguito, che di tale scoperta,
«Non ne sentivamo la mancanza, anche perché sistemi per individuare i bimbi Down non mancano»
Appunto. Uno in più - e forse più efficace e meno invasivo non vedo perché non debba essere salutato con favore. Inutile poi fare il carino con le madri ansiose per le quali
«avere conferma che il figlio non è malato serve a rasserenarsi»
Non vorrei dire cazzate ché non sono tanto esperto, ma le madri non saranno più serene a fare un prelievo di sangue che una amniocentesi?
Il Bellieni poi parte con la ramanzina su come le risorse pubbliche dovrebbero essere concentrate, più che sui test prenatale, su come aiutare le famiglie e i futuri nascituri “malati” a guarire. Scrive
Si moltiplicano i test genetici prenatali; e salta all’occhio l’impiego di risorse su risorse per questo scopo, mentre invece in molti Paesi le associazioni di persone con disabilità varie lamentano tagli su tagli negli stanziamenti sociali e nella ricerca per aiutare chi è malato, chi ha malattie rare, chi ha familiari portatori di handicap. Anche chi sostiene la liceità dell’aborto trova difficile a questo punto sostenere che l’aborto sia una scelta libera: quale libertà può esserci se l’alternativa di "tenere" il bambino non solo non trova un sostegno economico, ma neanche culturale o sociale? Eppure la medicina non ha difficoltà a riconoscere che il feto è un paziente e va curato; e probabilmente se questi sforzi e questa consapevolezza venissero assecondati, tutta la società ne trarrebbe vantaggio.
Fin dal momento del concepimento, le madri che vogliono “tenere” il bambino e portare a termine la gravidanza si prendono cura del feto. Invece le madri, che per una ragione o per un'altra, di accordo con il compagno o marito o con la famiglia, oppure per decisione autonoma, non vogliono portare a termine la gravidanza, hanno facoltà di interromperla entro un certo limite di tempo. Fatta questa premessa, allora concordo col Bellieni che il feto-paziente vada curato, anche con le meritevoli tecniche Exit di cui egli parla ad inizio editoriale e a cui rimando.
Il convogliare le risorse soltanto sul dopo i novanta giorni è capzioso e fuorviante, giacché è aldilà di ogni ragionevole dubbio che ogni madre del pianeta si auguri di partorire un figlio sano, senza malattie genetiche o sindromi varie. E una donna che si sottopone a questi test non è una potenziale criminale se poi, visti certi risultati, deciderà di abortire. Non lo è e non lo sarà mai. Almeno finché resterà in vigore la legge attuale.
Scrive ancora il Bellieni che «gli Stati» (dice Stati, ma lui pensa a quello italiano, nevvero) dovrebbero dedicare
«più attenzione alle cure che all’alba della vita favoriscono la vita stessa»
lasciando intendere che lo Stato dovrebbe spendere meno risorse per i test di diagnosi prenatale che offrano alla donna la possibilità di interrompere la gravidanza.
Ma, come dicevo all'inizio, il Bellieni il “meglio” lo dà quando accusa «la cultura che si respira in occidente riguardo alla vita prenatale». Una cultura relativista, possibilista, liberale che, ahinoi,
«unisce disinformazione, paura e abbandono che mischiati senza cura stuzzicano la parte emotiva dei futuri genitori»
Ora, che la che cultura occidentale stuzzicasse non lo sapevo. E non credo lo faccia, dacché, se così fosse, io mi farei stuzzicare in continuazione da essa, in certe parti del corpo molto culturali.
Scherzi a parte, il Bellieni s'infervora contro tale paura che, a suo dire,
«dovrebbe essere combattuta culturalmente da una società che mostri con i suoi strumenti potenti di non classificare i cittadini in categorie a seconda della malattia; mentre l’abbandono di chi ha maggiormente bisogno non è accettabile in un mondo che si dice moderno ed evoluto.
Abbandono? Innanzitutto si può parlare di abbandono di un figlio appena nato (non certo di un feto non voluto). E poi: è più probabile venga abbandonato un figlio down che una madre non sopporta di vedere alla nascita perché impreparata ad accoglierlo dato che non le era stato diagnosticato, oppure un figlio con tale sindrome che una madre consapevole di averlo in grembo ha deciso di darlo alla luce? Il Bellieni non fa questi rilievi, e mi dispiace, perché toglie l'unica risorsa che l'Occidente, pur nelle sue lacune e ristrettezze, ancora concede: la libertà di decidere se avere un figlio o no.
2 commenti:
Se tu sei un tal Lucas, Carlo Bellieni non è un tal Bellieni; se non lo conosci peggio per te; continuerai a scrivere cose tipo "un figlio down che una madre non sopporta di vedere alla nascita": questa sì è una frase del cazzo, mica il titolo. Comunque significativa.
Stefano
Può darsi lo sia la mia frase, ma - purtroppo - mi riferivo a cose che in realtà succedono (madri che, appena partorito, abbandonano o non riconoscono i propri figli: bene o male che sia, ne hanno facoltà. Ricordo la cronaca di alcuni mesi fa quando una donna dette alla luce un figlio affetto da nanismo e lo lasciò in affido all'ospedale), ma di questo di certo non gioisco, tutt'altro.
Il titolo dell'articolo di Bellieni (non so se poi l'ha scelto lui) è fuorviante, giacché usare le categorie di Amore e Paura per parlare di test prenatale e di tecniche di chirurgia fetale mi sembra inappropriato.
Ma, ripeto, la cosa che più mi ha irritato è l'occhiello: «un altro triste test anti-down». Significativo, sì.
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