«Ero quasi arrivato all'età, forse, in cui si sa apprezzare ciò che si perde ad ogni ora che passa. Ma non si sa ancora acquistare la forza di saggezza che occorrerebbe per arrestarsi di colpo sulla strada del tempo; e poi d'altronde fermandosi non si saprebbe che fare senza quella follia di avanzare che si possiede e che si ammira dopo la giovinezza. Già si è meno fieri della propria giovinezza; non si osa ancora confessarlo in pubblico che la giovinezza forse è soltanto questo: slancio a invecchiare.
Si scopre, in tutto il proprio ridicolo passato, una tale quantità di stupidaggini, canaglierie, credulità che ci si vorrebbe forse finirla di colpo d'essere giovani, aspettare che la giovinezza si stacchi, aspettare ch'essa vi sorpassi, vederla andarsene via, allontanarsi, guardare tutta la sua vanità, portar la mano sul suo vuoto, vederla ripassare ancora dinanzi a sé; e poi essere sicuri che se n'è veramente andata via, la giovinezza, e tranquillamente allora, per conto proprio, ritornare adagio adagio all'altro lato del Tempo per osservare come sono veramente le persone e le cose».
Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Dall'Oglio, Milano 1933 (traduzione di Alex Alexis).
Lo do per certo: molti di noi, ogni tanto, si fermano in solitudine a guardare lontane nuvole passare lasciando squarci di azzurro, ammirati. E in certi attimi, ognuno (di quei molti) pensa a sé, al tempo che passa, alla vita insomma; getta uno sguardo sul proprio passato ed esercita una vaga e timida elaborazione di futuro. Il tempo presente, quello che ha in mano, la cosa più certa, diventa come estraneo, come se non ci fosse in quel momento, dato che quel momento è vissuto per osservare tutto quello che presente non è. E chi si è, dunque, in quegli attimi se non fantocci in balia delle proprie rappresentazioni?
Basta un attimo di questa consapevolezza per avere il desiderio fortissimo di tornare a casa subito dai propri cari, di telefonare a un amico, di scrivere due righe al proprio amore, di cercare lo sguardo benevolo di un passante anch'egli preda delle stesse suggestioni. Via, via da se stessi, ritornare nel flusso quotidiano dei consueti movimenti che caratterizzano le nostre giornate feriali.
Perché, perché dobbiamo riflettere così spesso sul nostro destino? Perché dobbiamo pensare troppo la vita anziché viverla e basta? Quanto sarebbe più facile vivere senza pensarci troppo: si defluirebbe leggeri e placidi come una piccola frasca sul pelo dell'acqua, senza temere rapide o cascate, né - soprattutto - lo sfociare nel mare.
4 commenti:
che strano, due edizioni italiane nello stesso anno. io ho quella della corbaccio sempre tradotta da alex alexis, nella collana scrittori di tutto il mondo (31). come lo spieghi?
Mi sembra, ma non ho controllato, che Corbaccio abbia successivamente poi, e recentemente pubblicato il Viaggio con nuova traduzione di Giuseppe Guglielmi.
Certo, la mia Dall'Oglio è una ristampa del 1982. Ma io metto sempre la data della prima edizione, non per vezzo.
Forse per imparare a vivere la vita bisogna fraintenderla molte volte. Pensare inutilmente fino a stancarsi. Da quella stanchezza, può nascere qualcosa.
Questo post è curiosamente in sintonia con quanto sto vivendo. Ma non è strano, a pensarci. Viviamo tutti nello stesso eterno istante.
Sì, Massimo: credo nei continui fraintendimenti
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