«Eppure
c'è qualcosa, qualcosa c'è, dentro di me, che morde, morde. Non la
coscienza – che non ho; non quella di prete Gigi almeno: ché io
tengo coscienza onesta di lavoratore, che onestamente – sudando –
se del caso ruba. Beh, chiamiamolo pur coscienza,
il moscone che di dentro ronza e mai si posa, il moscone in volo da
stamane, da sul greto del fiume, in volo sullo sterco dei sentimenti
miei. E fin che la mosca ronza, la faccia non mi si smolla, no. La
faccia non si smolla perché la mosca ronza, e ronzando ronza così:
“Forse che... la è finita, forse, la giornata?” Ah, la lavativa,
la mosca del poi; ah,
la coscienza... la coscienza politica!
Finiti per sempre i bei tempi beati, quando che se in mano ciài una
micca, quel che ti resta da fare è mangiartela; finiti, i tempi
corti della tattica: e cominciati, per me, i tempi lunghi, e
stressanti, della strategia».
Giulio
Del Tredici, Tarbatagai,
Einaudi, Torino 1978, pag. 23
La
strategia è: dargli ragione, farli andare fino in fondo, più o meno veloci, verso lo
sfacelo, finché tutto sarà bruciato, tutto. Cenere come unico
fertilizzante, nel caso
ancora qualcosa avrà voglia e forza di germogliare.
Ché ostinarsi a correggere, a suggerire, a protestare, a riformare.
Non c'è da riformare niente,
l'impasto è andato a male; ciò
nonostante, a farci credere, gli impastatori, che qualcosa uscirà
fuori dal loro lavorio riformatorio, un alcunché su cui la loro
coscienza politica si
posa: lo sterco dei loro sentimenti.
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