martedì 10 marzo 2009

Aver da dire qualcosa

A me piace scrivere post prendendo spunto dalla mia biblioteca scompigliata. Pesco un libro a caso, cerco le sottolineature, i vari asterischi o Nota Bene, e rileggo. A volte càpita che la pagina sia pertinente con qualche argomento su cui ho piacere discorrere, confrontarmi, parlare. Altre, invece, succede che la pagina ritrovata contenga in sé un germe e una promessa d'ispirazione.
Stasera per esempio ho ritrovato un libro che avevo dato per disperso. Un libro di Taccuini, quindi un vero e proprio blog ante-litteram. L'avevo messo in soffitta, tra cumuli di polvere, inframezzato tra libri del Club degli Editori, tra Nuovi Argomenti, Alfabeta, Paradossi, L'Indice dei libri e qualche Playboy e Playmen d'annata (quest'ultimi due tipi di riviste mi hanno costretto a un attento riesame degli argomenti ivi trattati).

Ma adesso spazio al libro ritrovato.

«Non si sa che cosa si ha da dire se non si comincia a dirlo. Ed è il momento in cui si comincia a parlare che decide di quello che si dirà.
Che cosa significa allora "aver qualcosa da dire"? Aver sofferto qualcosa dalla vita. Ma "soffrire" non significa esser stati umiliati, torturati, esser nati gobbi, una sofferenza esteriore.
La sofferenza fisica o morale non è detto che sia la peggiore o più significativa. Ma aver subìto la vita senza saper come rispondere è la sofferenza feconda. Esser stato messo alla prova. Niente vale se non c'è stato questo. E se si vuole vivere d'amore e d'accordo non si sa nulla, non s'impara nulla.
Noi non mettiamo quasi mai alla prova la vita - i nostri simili - per sapere che cos'è, chi sono. Supponiamo la bontà per esempio, ma non osiamo avventurarci a conoscerla.»

Nicola Chiaromonte, Che cosa rimane - Taccuini 1955-1971, Il Mulino, Bologna 1995.

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