martedì 31 maggio 2011

I segni della fine

I segni della fine posso imitarli,
raggrinzire sul dorso della mia mano
la cute in corte sierre - farle durare
gli attimi di pensare che saranno 
millenni per quelle decrepite cellule.

Ancora senza danno posso cogliere a volo
l'idiozia estro che un ghirigoro
in una piega del cervello lampeggia
e mi blocca
una chiusa di capillare irrorante.

Coltivo emiplegia, storta bocca,
disconnetto parole e utensili, chiedo
un coltello (per esempio) da bere.
O in un riflesso di vetrina mi so vedere
e subito

farmi ginocchia che male mi sorreggono,
discreto farneticare: l'ammazzo, mi ammazzo,
e uno che mi segua cauto, chiami guardie - ma no,
per dirgli subito poi, è lei che vaneggia.
E io irreprensibile, rispettabile - o

a une dieci di sera
da un artificio precipitare in realtà,
diventare, cullarmi americano ubriaco
e naturali rutti politica fluire,
mio cinema. E in amore

cedere a ogni previsto senile errore
o giovanile che è
uguale sia pure speculare - piatire,
non saper non tremare, amare una
nel contemplare il luogo dove passò.

E i poveri esercizi del corpo
e l 'acqua dove nuoto che ha luce d'obitorio
e io che ci scherzo là in fondo guardandomi
morto - per mia mania
di pareggiare biografia e biologia.

I segni della fine posso imitarli e allontanarli.
Io so che sono loro che imitano me.
Come la vita non si può modificare,
ma al prezzo di esserne ingannati
tuttavia ingannare.

Giovanni Giudici, Autobiologia, Mondadori, Milano 1969.

Sono imperdonabile. Una settimana fa è morto Giovanni Giudici, uno dei miei poeti preferiti, la cui voce ho subito sentito dentro come un richiamo da quando ho cominciato a muovere i miei primi passi nell'ascolto della poesia contemporanea - è morto Giovanni Giudici, dicevo, e io non me sono neanche accorto. Ah, ecco perché la settimana scorsa Nazione Indiana Il primo amore pubblicò una sua poesia, che lessi. Ma non ci feci caso al nesso. Già, il nesso. Un poeta è morto, uno dei nostri massimi del Novecento, e io non l'ho nemmeno salutato. Anche solo una requie. È trascorsa una settimana, lo faccio ora, ricordando quando comprai il mio suo primo libro, il succitato da cui ho estratto. Era l'89 o il 90, avevo poco più di vent'anni, in ritardo su tutto, anche sulla maturità (quella di carta: quella cosiddetta di carne e spirito ancora è da raggiungere). Così mi presentai da privatista, agli esami, il primo giorno, il giorno del tema di italiano, e io avevo con me, oltre a un dizionario, proprio questo libro. Non sapevo come, ma sentivo che qualsiasi fosse stata la traccia io, nel tema, ci avrei infilato dei versi autobiologici. Culo volle che il prof d'italiano fosse anch'egli estimatore di Giudici, mi prese l'edizione in oggetto per sfogliarla, con mezzo sorriso tra le labbra, e dunque, va da sé, qualsiasi cosa abbia scritto in quel momento, valeva doppio, bastava solo stare attenti ai congiuntivi.
Altro ricordo rapido: numerosi sono stati i versi di Giudici che ho spedito via posta vera, con carta busta e francobollo, ad alcune corrispondenti per captatio benevolentiæ. D'altronde non sapevo né so suonare la chiatarra, quindi mi arraggiangiavo come potevo, cercavo il mio spazio e tutto, tutto tutto dannatamente tutto (o quasi) per un bacio, o una mano che scendesse dentro i chiusi universi femminili (per un po' di pelo insomma).
Ecco, caro Giovanni, io sono qui a ricordarti, a dire al poco mondo che conosco che io ho letto la tua voce, ascoltato i tuoi libri, che ogni tanto li prendo e porto via con me. Sappi che ti voglio bene.
 

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