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«La svolta del nuovo equilibrio fra soggetto e oggetto instaurato da Pascal, fra appello personale e prove oggettive, è paradigmaticamente espressa da alcuni passaggi di uno dei suoi frammenti più noti: "Il Dio dei cristiani non consiste semplicemente in un Dio autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi: è la parte dei pagani e degli epicurei. Non consiste semplicemente in un Dio che esercita la propria provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini, per donare una felice serie di anni a chi lo adora: è la parte degli Ebrei. Ma il Dio d’Abramo, il Dio di Isacco il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani, è un Dio di amore e di consolazione; è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli che Egli possiede; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria, e la sua misericordia infinita; che si unisce al più profondo della loro anima, che la riempie di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore; che li rende incapaci di altro fine che non sia Lui stesso" (Pensieri, n. 602). Pascal ha ragione.»
Pascal ha ragione un cazzo. Ci pensavo oggi, con questi dolorini che mi tengono contratto il collo, che mi fanno sentire quanto la testa sia un peso per il corpo. A un certo punto, saranno state le tredici o giù di lì, durante una breve pausa tra un turno e l'altro, ho portato la mia testa altrove, su una panchina sopra un rialzo di terra riportata con davanti la ferraglia cigolante di una stazione. Ah che bello, il sole luminoso che si allarga tra piccoli sbuffi di nubi biancastre. Detto fatto, metto il pettuccio al sole perché - mi dico - queste sono cose che non si fanno da morti. E sento i miei baffi abbronzarsi, così come il mio scarso pelo pettorale. Posso dire che ne ho goduto? Posso. E, d'improvviso, lucentezza per lucentezza, ho percepito l'inesorabile scorrere del tempo, ho visto i miei futuri capelli grigi, gli occhi tipo quelli di mio padre un mese prima che morisse, nei quali io tentavo le mie assurde diagnosi iridiologiche.
Quanto è faticosamente bello vivere. E il sole diventa un succo ora. Schiaccio una zanzara su una spalla. Per ora è morta lei. L'erba sotto i piedi suda la recente pioggia. Mi sdraio e sento arrivare un treno. E se invece di una panchina di legno fossero binari, sarei così beato e tranquillo?
«Penso che il terreno s'ingrasserebbe bene concimato di cadaveri, ossa, carne, unghie, fosse comuni. Spaventoso, Diventa rosa e verde, si decompone. Va in putrefazione presto nel terreno umido. I vecchi magri più duri. Poi una specie di impasto segoso una specie di formaggio. Poi cominciano a diventar neri e ne cola fuori una melassa. Poi rinsecchiti. Farfalle dei morti. Naturalmente le cellule o come diavolo si chiamano seguitano a vivere. Si ricombinano. Praticamente non smettono mai di vivere. Niente da mangiare mangiano se stesse». James Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio De Angelis, Meridiani Mondadori, pag. 150
Pensare alla morte in anticipo, a una certa distanza di sicurezza (si spera) fa bene (presumo). Mi toglie tanti vizi, in primis quello di avere a tutti i costi fottutamente ragione.
Mai fino ad oggi ho vissuto così poca voglia di autunno, per me che ottobre e novembre sempre stati i mesi migliori. Adesso vorrei che non fossero, vorrei fosse subito primavera, per togliersi dalle palle tutta questa chiacchera elettorale distraente, e gli ultimi colpi tecnici di un governo che lascerà il segno, un tatuaggio brutto sulla pelle d'Italia.
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