giovedì 29 maggio 2014

Morning Glory

«La notte non porta consiglio, porta, casomai, se non dormi o dormi male e vorresti dormire, disperazione. La notte presenta il conto di tutte le inquietudini – e l'agitazione ti prende alla gola, e cerchi affannosamente una soluzione per porre rimedio al senso di vuoto, di vertigine, di solitudine.»

Questo pensava Elia sul divano, saranno state le cinque e il chiarore del giorno offriva, finalmente, la soluzione della mattina.
Silenzio completo, solo i primi cinguettii primaverili, vita che si alza e che sa già quello che c'è da fare e come farlo al meglio.
Elia no, non lo sapeva mai e per questo ogni giorno gli necessitavano alcune mezz'ore, di solito tre, per esser pronto a salire sui binari della propria vita.
E pensava: di solito rimestando i sogni e gli accadimenti del giorno precedente, oppure gli avvenimenti mondani che si impongono nei media, la politica puttana, raramente di episodi a carattere sportivo. A volte però, appunto quando la notte era inquieta, vuoi per un mal di testa, vuoi per altro tipo d'incombenza anche di natura sentimentale, le ore che precedevano il momento di salire in treno e andare al lavoro, erano tutte dedicate a sopire, per quanto poteva, l'inquietudine.

Stamani, per esempio, dicevamo sul divano, assalito da un'improvvisa erezione, per cercare di risolverla, Elia si è prefigurato un sentimento che non gli appartiene e che non sa ricambiare, sfruttandolo, piegandolo a biechi interessi di natura orgiastica, interpretando un ruolo che non gli si confà - e lo specchio dello schermo tv riflette quanto sia ridicola tale postura.

Tuttavia, pur lasciando cadere tali suggestioni in dispregio, resta immutata in lui la voglia mattutina e l'unica maniera che conosce è spegnerla con una doccia, virata sul freddo, dopo che ha messo la moka sul gas, la maniera che alla lunga ha imparato a preferire, riservando la soddisfazione ad altre ore del giorno più opportune.
Dipoi, in accappatoio, si prende il caffè seduto al tavolo di cucina, un libro aperto a cercare di divergere l'attenzione dal sé. Ma non ci riesce. L'unica cosa che lo distrae sono i volantini con le offerte del supermercato. È un'autentica passione, tale lettura. Osserva ogni prodotto in offerta come se esso contenesse chissà quali virtù taumaturgiche, come se il facile possesso di tale merce gli garantisse un sovrappiù di esistenza: «Filetti di tonno del mar Cantarbico scontati del 50%». Che miseria.

E il peso che resta.

Ma il giorno comincia, regolare ma mica poi tanto. Un treno soppresso e quello dopo con notevole ritardo (e telefonare al capoufficio e giustificarsi è sempre una pena).
E anche se le scorie della notte sono interrate dai doveri e dalla routine quotidiana, una lieve ipocondria lo tiene compresso e il sorriso resta incassato, lo sguardo velato, il cuore freddo. Finché.

Finché accade qualcosa che apre la tenda del giorno: le estremità delle labbra si piegano al riso, nello sguardo si accende una luce – e il cuore si scalda.

Cosa accade e perché?
Niente di particolare, soprattutto: niente di trascendentale. Elia stesso, quando me ne parla, non riesce a spiegarsi bene, lascia intendere qualcosa, due occhi per esempio.
«Ma quali occhi?» gli ho domandato più volte, e lui niente, non ha mai voluto rispondere.

Un giorno, per caso, mi sono ritrovato a pranzo nello stesso locale dove consuma i buoni pasto che gli fornisce l'azienda. Mi ha pregato di accomodarmi al suo tavolo, avrebbe offerto lui.
D'un tratto, mentre gli raccontavo della mia tribolata storia con Carla, dell'indifferenza che è scesa nei nostri cuori, Elia mi mette una mano sull'avambraccio pregandomi di tacere e guardare verso l'ingresso.
«Eccola», dice indicandomi con lo sguardo una ragazza sui vent'anni, i capelli color rame raccolti in alto e fermati con una specie di osso appuntito.
«E chi sarebbe?» chiedo; e aggiungo sorridendo: «Ma non è un po' troppo giovane per te?».
«Non dire cazzate, ti prego» mi rimprovera. «Guardala bene: sicuro che non la riconosci?».
No, non è possibile, dico in cuor mio. Non può essere lei. Il tempo passa per tutti. E a Elia: «Non, non può essere Lara».
«Non lo è, infatti» risponde sicuro. «È sua figlia».
«E come fai a saperlo?»
«Me l'ho ha detto lei. Vedi, un giorno, il ristorante era pieno, si è seduta proprio dove sei seduto tu. Manca poco svengo: non riuscii più a mettere in bocca niente dall'emozione. Ebbi solo modo di domandare se conosceva una signora di nome Lara O. “Certo, è mia madre”. Mi rispose e, a sua volta, chiese se la conoscessi».
«E tu che hai risposto?»
«Per depistare, ho detto che ero stato suo compagno di classe e che ricordavo bene i suoi lineamenti che adesso rivedevo in lei».
«Credi che l'abbia bevuta?»
«Non lo so. E francamente non me ne importa. So solo che da quando l'ho vista m'è ritornata tutta l'agitazione di un tempo, la stessa inquietudine. Dormo male la notte, mangio meno del solito, non riesco più a guardare 8½».
«Che c'entra la Gruber?»
«Niente, non c'entra niente la Gruber. È che ripenso, nuovamente e costantemente, a Lara, alle sue carezze, al suo abbraccio, ai suoi baci...»
«Possibile che, dopo trent'anni, tu pensi ancora a lei?».
«In verità non penso a lei: penso all'amore».

Con un affettuoso vaffanculo e un sorriso, gli misi una mano sulla spalla e promisi che, di lì a poco, avrei prenotato un bel week-end saunistico a Innsbruck per me e per lui, slovacche comprese.

Con un vaffanculo un po' meno affettuoso, mi congedò.

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