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Hai fatto bene a venire a casa, amore, sentendoti tanto stanco.
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There's not a place like home, – disse Oliveira.
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Prendi ancora un pochino di mate, è fatto da poco.
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Con gli occhi chiusi sembra ancora più amaro, è meraviglioso. Mi
lasceresti dormire un po' mentre leggi qualche rivista?
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Sì, caro, – disse Gekrepten asciugandosi le lacrime e cercando
“Idilio” per pura obbedienza, quand'anche fosse stata incapace di
leggere.
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Gekrepten.
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Sì, amore.
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Non ti preoccupare per questo, mia cara.
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No di certo, tesoro. Aspetta che ti metto un altro impacco freddo.
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Fra poco mi alzo e andiamo a fare un giro per Almagro. Magari dànno
qualche film musicale a colori.
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Domani, amore, adesso è meglio che riposi. Sei arrivato con una
faccia...
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È il lavoro che ci vuoi fare. Non devi preoccupartene. Senti come
canta Centolire lì sotto.
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Gli stanno cambiando l'osso di seppia, creaturina del Signore, –
disse Gekrepten. – È così riconoscente...
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Riconoscente, – ripeté Olivera. – Questa poi, essere
riconoscente verso chi lo tiene in gabbia.
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Gli animali non se ne rendono conto.
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Gli animali, – ripeté Oliveira.
Julio
Cortázar, Rayuela, Buenos
Aires 1966 (ed. it. Il gioco del mondo, Einaudi,
Torino 1969, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini).
Tornando
a casa dal lavoro, senza fretta («par che torni»
si suol dire, in effetti), ho incrociato per strada due uomini. Il
primo, pantaloni e camicia da ufficio, mocassini, una bicicletta che
spingeva in salita come un sassofonista in fuga (variante contiana di Boogie), nel portapacchi un giornale, la giacca, forse un panino. Il
secondo, più giovane, con la barba folta, vestito di scuro, camicia
compresa, zaino in spalla, camminava, anch'egli in salita, dall'altra
parte del versante. Tra poco, tra mezz'ora forse, s'incontreranno.
Vedranno in faccia le loro solitudini, i loro tentativi di fuga,
anche breve, chissà da che cosa, da quali ‘prigioni’.
Riusciranno mai a sentirsi liberi? A fuggire fantasmi o padroni? Cosa
li ha spinti sin qui, in queste condizioni di strada, dove gli unici
ciclisti sono di solito quelli amatoriali, e i camminatori gruppi di
boys scout? Forse l'essersi resi conto che qualcosa li teneva in
gabbia, una gabbia magari dorata, piena zeppa di ossi di seppia
appetitosi, di svaghi, di soluzioni gratificanti per una vita comoda.
Poi, d'improvviso, la voglia di uscire, la stanchezza e l'avvilimento
del sentirsi riconoscenti di questa nostra vita comoda occidentale.
Riconoscenza verso che cosa, in fondo? E verso chi? Quand'è che la
riconoscenza diventa una condizione di schiavitù? Essere
riconoscenti è restare in gabbia dicendo grazie a chi ti dà
mangiare, anche se poi costui tutti i giorni ti dà un boccone in
meno. Certo, tutti più o meno abbiamo un debito di riconoscenza
verso qualcuno o qualcosa, ci mancherebbe. Il punto non è questo. Il
problema nasce là dove c'è un potere che pretende questa
riconoscenza, che tu gli riconosca di essere in debito, per tenerti
schiacciato sotto l'immane peso della coscienza, del rispetto,
dell'ubbidienza. Noi umani siamo gli unici animali che, una volta che
abbiamo insegnato a volare a qualcuno, ci aspettiamo che questo si
volti indietro a dirci continuamente grazie. Grazie, è bello dire
grazie, sì, ma una volta e poi basta. Poi via, si prova a volare o a
fare una rivoluzione (non oso dire la).
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