«Se mai un poeta ha un obbligo verso la società, è quello di scrivere bene. Essendo in minoranza, non ha altra scelta. Venendo meno a questo dovere, scivola nell'oblio. La società, d'altra, parte, non ha alcun obbligo verso il poeta. La società, maggioranza per definizione, presume di avere altre opzioni che non leggere versi, per quanto ben scritti. Ma se trascura di leggere versi rischia di scivolare a quel livello di eloquio al quale una società diventa facile preda di un demagogo o di un tiranno. Questo è, per la società, l'equivalente dell'oblio: un tiranno, naturalmente, può tentare di salvare i propri sudditi da questo pericolo con qualche spettacolare bagno di sangue.»
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987 (traduzione di Gilberto Forti).
Occidente: spettacolari bagni di sangue, tipo Siria almeno, non sembrano in vista. Tiranni ve ne sono? No, o forse sì, ma di diversa specie, dato che sono eletti democraticamente o, peggio, incaricati per salvare nazioni dal baratro economico finanziario (facendo riforme in favore del popolo, nevvero... no, non è vero). E dunque, nella nostra ora presente, cosa vuol dire per il poeta scrivere bene, pena la caduta nell'oblio? Per me, per il poeta scrivere bene significa scrivere male della società in cui vive, raccontarne le contraddizioni, le mancanze, le storture, le pene - e, insieme, quei piccoli margini di gioia strappata alla perdurante stupidità del mondo ch'egli ha la fortuna di catturare con la sua rete di parole.
Il paradosso è che più il poeta vive in una condizione di disagio e di dolore (per capirsi: non è culo a mollo nell'acqua tiepida nella piscina idromassaggio di un potente di turno), più riesce a scrivere bene, scrivendo male di quello che lo circonda. Per tornare alla Siria: è più facile che un verso scritto a Damasco o ad Aleppo in questi giorni sia scritto bene, che milioni di versi scritti in tutta Europa e nell'America del Nord (non voglio, con questo, santificare la poesia di guerra o della miseria: mi chiedo solo se oggi un poeta tedesco di Stoccarda, con il suo impiego presso un ente pubblico o una grande industria, possa scrivere un verso, anche uno solo, significativo come uno di Brecht o di Celan. Può? No, non può).
Al poeta d'occidente, dunque, per scrivere bene, non resta che sputare nel piatto dove mangia, per far vedere al pubblico dei suoi lettori che la pietanza è avvelenata. Un verso, per essere ricordato, deve andare attraverso: non può essere deglutito facilmente come fosse acqua fresca.
Se la poesia infastidisce la società («maggioranza per definizione») ha assolto il suo obbligo: ha scritto bene, abbastanza perlomeno per non tesserne le lodi.
2 commenti:
"siate sabbia e non olio nell'ingranaggio del mondo" (G. Eich)
Ho trovato queste righe in una vecchia agenda degli anni universitari.
Signor Massaro,mi perdoni, ma stanotte non sono d'accordo con lei. Mi sembra che nello sforzo di capire lei stia semplificando troppo. O, mi perdoni due volte, c'è quasi un nonsocché di personale.
O no?
Buongiorno e, prima di tutto, grazie per il "Signor": non essendone abituato, fa sempre un certo effetto essere appellati così.
Riguardo al post: penso che lei abbia ragione, cioè penso che abbia semplificato troppo; tuttavia, quanto ho scritto mi sembra in linea con la bella citazione che lei riporta.
Inoltre, non ho niente da perdonarle, solo - eventualmente - da ringraziarla della sua attenzione al mio "balbo parlare". Di personale in questo luogo c'è sempre qualcosa, dato che se non ci fosse questo blog - forse - non avrebbe ragione di essere.
Per concludere: per un poeta, quale che sia la sua condizione sociale, scrivere bene significa dare sempre l'impressione al lettore di essere minoranza, di sentirsi estratto come un file zip dalla società cui appartiene e di essere chiamato in causa, ovvero chiamato a vivere.
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