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«E
mi sembrò che fosse proprio la stessa cosa come se uno dicesse che
Socrate fa con la mente tutto quello che fa, poi mettendo mano a dire
le cause di ogni cosa che faccio, dicesse per prima cosa che io siedo
qui per queste ragioni, perché il mio corpo è composto di ossa e di
nervi e le ossa sono rigide e hanno giunture che le tengono separate
le une dalle altre e che i nervi sono in grado di trarsi e
distendersi, circolando le ossa con la carne e la pelle che tiene
unito il tutto. E poiché le ossa stanno sospese nei loro legamenti,
i nervi allentandosi e tendendosi fanno sì che in qualche modo io
ora sia in grado di piegare le mie membra, per questa ragione io
essendomi piegato sto seduto qui». Platone, Fedone,
98c-98d, (traduzione di G.
Giardini, Newton & Compton, Roma)
Ma
che ci sto seduto a fare?
Ci
sto perché con la mente faccio tutto quello che faccio, poco,
trascrivo pensieri che prima non esistevano, dichiarazioni che non
sono altro che azioni, dette più che fatte, giacché io non sono
un uomo del fare, preferisco il
dire (e il baciare). E temo
l'esaurimento, per un attimo, un attimo soltanto, giusto il tempo per
non cedere alla tentazione di credermi un pozzo. La mia vena, se ho
una vena, non è esauribile, in quanto non è altro che un elemento
della circolazione dei pensieri. Essi frullano, come qualcos'altro, e
producono crediti esistenziali non indifferenti. Non indifferenti. In
altri termini, se mi giro e ti guardo e vedo che mi guardi mi
sento regalato al mondo, di
esserci insomma, e di esserci in un certo modo, quel modo
in cui m'immaginavano e immagino ancora
sia bello starci a questo mondo, nella comprensione e nell'affetto,
nello sfioramento leggero di una mano che passa in cerca di carezze.
Una specie di compimento evolutivo privatissimo (sapessi come
raddrizzo la schiena e le spalle tendo per non piegarmi più, non
piegarmi più).
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