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martedì 23 agosto 2022

Stavo pensando

Stavo pensando a come il pensiero possa racchiudere dentro sé stesso tutto quello che non solo lo circonda, ma pure lo oltrepassa, in alto, in basso, al centro, con la riverenza o senza.
Stavo pensando al pensiero che si forma proprio un attimo prima di lasciare il sonno in favore della veglia, quel pensiero infante, crepuscolare, di nebbia che si dirada e improvvisa luce. E capivo. Capivo quanto sia difficile non credere che quello che siamo non sia tutto, ossia avere un'indefinita percezione che il nostro corpo sia come uno strumento di contenimento di qualcosa che potrebbe unirsi, mediante un certo tipo di lavoro, di conoscenza e di attrezzatura gnoseologica, alla vertigine del saliscendi in mondi che lo trascendono. 
Stavo pensando e poi ho letto, di sfuggita, il programma elettorale di alcuni partiti e ho smesso di pensare per un po’.

sabato 2 luglio 2016

Vi sono cose che l'intelligenza

«Vi sono cose che l'intelligenza sola è capace di cercare, ma che, da sé, non troverà mai; l'istinto solo potrebbe trovare queste cose: ma non le cercherà mai». 
Henri Bergson, L'evoluzione creatrice.

Istintivamente sono portato a pensare che certe cose potrei anche trovarle, se le cercassi. Ma io non cerco niente, o quasi niente, giacché non ho esatta contezza su che cosa valga la pena di essere cercato e in seguito trovato, un dio per esempio. 

«Ho trovato Dio!, ho trovato Dio!». 
«Lo cercavi?».
«Sì».
«Allora è per questo che l'hai trovato».
«No, è lui che ha trovato me... e mi ha chiamato».
«Ma chi cercava chi, allora?».
«Ci cercavamo».
«Tu e Dio?»
«Sì».
«E ti ha trovato prima lui o l'hai trovato prima tu?».
«Ci siamo trovati insieme».
«Flic e Floc».
«Veramente mi chiamo Mario».
«E Dio?».
«Maria».

giovedì 22 ottobre 2015

Filosofia della gestione

«Di questo nesso tra teoria e politica si sente oggi la mancanza.
Ma è finito, è finito completamente. Questo è vero non solo per l’Italia. [...] Forse perché è venuta meno la centralità della politica. Perché questa non è una crisi della filosofia secondo me, ma una crisi della politica. Siamo in una dimensione in cui la politica non conta più nulla, non ha più in mano la gestione del mondo e allora diventa tecnica amministrativa. Forse non si tratta di un venir meno della filosofia quanto proprio della politica.» via

Compito di un filosofo (teoretico o politico che sia) dovrebbe essere quello di indagare perché avvengono certi fenomeni, come si determinano i cambiamenti, come si sciolgono i nessi, in questo caso il motivo per cui la politica non conta più niente.
Una volta accantonato, storicizzato, Marx - dopo averne fatto cattivo uso, tra l'altro - mica gli passa in mente al filosofo Cacciari che la teoria marxiana è l'unica in grado di spiegare le ragioni per cui la politica non conta più nulla, ovvero conta solo nella misura in cui riesce a garantire gli affari dei gestori del mondo, i cui interessi sono chiari: D→D', ossia dal Denaro ottenere più Denaro, con - ancora, a tratti - la mediazione della Merce. È questo lo scopo finale dei gestori, più che altro del soggetto automatico capitalista che ha imbrigliato l'azione umana in questa logica assurda. 
E questo punto fondamentale, dirimente, viene sistematicamente ignorato e quindi escluso e dalla politica e dalla filosofia forse perché, come osserva Cacciari:
«in Marx vi era una critica dell’economia politica dalla quale non si poteva dedurre la dimensione più propriamente politica»
La politica di stocazzo: indeducibile, infatti.

lunedì 22 dicembre 2014

La capacità di immaginare

«La concezione di un uomo già dotato di un intelletto capace di immaginare la costruzione della civiltà e di crearla è tutta fondamentalmente falsa. L'uomo non ha semplicemente imposto al mondo un modello creato dal suo intelletto. Il suo intelletto è esso stesso un sistema che, nel tentativo di adattarsi all'ambiente circostante, cambia di continuo. Sarebbe un errore credere che per realizzare una più alta forma di civiltà dovremmo solo mettere in pratica le idee che oggi ci guidano. Se vogliamo progredire, dobbiamo lasciare posto alla continua revisione delle nostre idee attuali che le future esperienze renderanno necessaria. Siamo così poco capaci di immaginare quel che la civiltà sarà o potrà essere fra cinquecento o anche cinquant'anni, quanto lo furono i nostri antenati medioevali o persino i nostri nonni, che non seppero certo prevedere il nostro sistema di vita di oggi.
L'idea di un uomo che deliberatamente costruisce la sua civiltà deriva da un falso intellettualismo che considera la ragione umana come qualcosa al di fuori della natura e provvista di una capacità intellettiva e razionale indipendente dall'esperienza. Ma lo sviluppo della mente umana è parte dello sviluppo della civiltà; e lo stato della civiltà in qualsiasi momento determina la portata e le possibilità di fini e valori umani. La mente non può mai prevedere il proprio progresso. Dobbiamo sempre lottare per la realizzazione dei nostri scopi attuali, ma dobbiamo anche dar modo alle nuove esperienze e agli eventi futuri di decidere quale di tali obiettivi sarà realizzato.»

Friedrich A. Hayek, The Constitution of Liberty, Chicago 1960 (edizione italiana, La società libera, Vallecchi, Firenze 1969, traduzione di Marcella Bianchi e di Lavagna Malagodi). Cap. 2, “Le capacità creative di una civiltà libera”.

L'uomo no, non ha deliberatamente creato alcuna civiltà, ovvero l'ha creata compiendo delle azioni che indirettamente hanno dato vita a delle particolari civiltà. La natura delle azioni compiute e quindi sommate le une alle altre, il cosiddetto lavoro svolto, sono state di volta in volta incanalate all'interno del sistema produttivo in vigore in ciascuna epoca.
Ma che cosa principalmente impedisce alla mente di non «prevedere il proprio progresso»? 
La storia dimostra che gli uomini, dominanti e dominati, ritengono il sistema produttivo nel quale si trovano a vivere come l'ambiente naturale dal quale non possono prescindere pena, una volta, l'ira degli dèi funesti e il crollo del degree (l'ordine sociale garantito dal quel figlio di puttana del monarca di turno), e, oggi, pena la fine della democrazia liberale, perché solo attraverso il libero mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione l'uomo è veramente libero.

Libero una sega[*].
Anche quella.

Da ciò deriva il nostro difetto di immaginazione e di previsione. Tuttavia, se la mente «non può mai prevedere il proprio progresso», può (anzi, deve/dovrebbe) comprendere le leggi che regolano il processo dell'agire umano (il suo fare e la sua produzione) e quel che da esso scaturisce. Rifiutarsi di compiere questa operazione critica, per tema di ledere la legittimità del potere, è respingere a priori ogni idea di progresso reale e garantire giocoforza lo status quo. 

Cazzo, in due secoli di svolgimento il capitalismo è salito più in alto degli dèi dell'Olimpo e di Yahvé.

[*] Ho segato un piccolo albero nel bosco, un abete bianco, alto come un uomo. Ha i rami storti. L'albero di Immanuel. 

martedì 3 giugno 2014

Seduto qui

via Incidental Comics

«E mi sembrò che fosse proprio la stessa cosa come se uno dicesse che Socrate fa con la mente tutto quello che fa, poi mettendo mano a dire le cause di ogni cosa che faccio, dicesse per prima cosa che io siedo qui per queste ragioni, perché il mio corpo è composto di ossa e di nervi e le ossa sono rigide e hanno giunture che le tengono separate le une dalle altre e che i nervi sono in grado di trarsi e distendersi, circolando le ossa con la carne e la pelle che tiene unito il tutto. E poiché le ossa stanno sospese nei loro legamenti, i nervi allentandosi e tendendosi fanno sì che in qualche modo io ora sia in grado di piegare le mie membra, per questa ragione io essendomi piegato sto seduto qui». Platone, Fedone, 98c-98d, (traduzione di G. Giardini, Newton & Compton, Roma)

Ma che ci sto seduto a fare?

Ci sto perché con la mente faccio tutto quello che faccio, poco, trascrivo pensieri che prima non esistevano, dichiarazioni che non sono altro che azioni, dette più che fatte, giacché io non sono un uomo del fare, preferisco il dire (e il baciare). E temo l'esaurimento, per un attimo, un attimo soltanto, giusto il tempo per non cedere alla tentazione di credermi un pozzo. La mia vena, se ho una vena, non è esauribile, in quanto non è altro che un elemento della circolazione dei pensieri. Essi frullano, come qualcos'altro, e producono crediti esistenziali non indifferenti. Non indifferenti. In altri termini, se mi giro e ti guardo e vedo che mi guardi mi sento regalato al mondo, di esserci insomma, e di esserci in un certo modo, quel modo in cui m'immaginavano e immagino ancora sia bello starci a questo mondo, nella comprensione e nell'affetto, nello sfioramento leggero di una mano che passa in cerca di carezze. Una specie di compimento evolutivo privatissimo (sapessi come raddrizzo la schiena e le spalle tendo per non piegarmi più, non piegarmi più).

sabato 8 febbraio 2014

A li mortè

(avvertenza: post scritto col polpastrello del pollice della mano destra puntato filosoficamente sotto il mento)

A pensarci bene, l'anima potrebbe essere qualcosa che si ricicla. Per tal motivo, se ti capita, lettore, di buttarla via, non gettarla nell'indifferenziato, potresti rischiare di vederla finire in discarica o, peggio, nell'inceneritore (un'anima finita in diossina, una finuccia). A mio parere, dunque, la miglior cosa è deporla in appositi cassonetti differenziati: o per la raccolta della carta (caso sopraillustrato), oppure in quelli per la plastica; o anche nelle campane destinate al vetro, oppure ancora in quelle predisposte per l'umido. Qualche esperto suggerisce invece di inserirla negli appositi contenitori per le pile scariche (lasciando intendere al Grande Progettista di provvedere quanto prima ad un'anima ricaricabile); altri, di parere opposto, ritengono che l'anima, in virtù del suo continuo lavoro di lubrificante corporale, dovrebbe essere destinata al barile per gli olî esausti, 
Sia come sia, l'importante è non ostacolare la metempsicosi: che l'anima passi pure da un corpo all'altro del regno vegetale e di quello animale, salvo i volatili, Romeo, altrimenti Elisa non la finisce di rompere l'anima.

martedì 19 novembre 2013

Nature vs. Nurture


Sardegna, disastri naturali
Beirut, disastri umani
Give me a dozen healthy infants, well-formed, and my own specified world to bring them up in and I'll guarantee to take any one at random and train him to become any type of specialist I might select – doctor, lawyer, artist, merchant-chief and, yes, even beggar-man and thief, regardless of his talents, penchants, tendencies, abilities, vocations, and race of his ancestors.”  John B. Watson

A me invece datemi una dozzina di pianeti da plasmare e, prima ancora, i poteri - che si presume un Creatore divino abbia - per plasmarli e vi farò vedere come avrei invertito due necessità: un ciclone a Beirut che investiva le auto dei due attentatori suicidi, e in Sardegna un fuocherello analogo a quello sopra di Beirut, appiccato diligentemente da un pastore per bruciare le sterpaglie.

Almeno il mio mondo sì che sarebbe stato non dico perfetto, ma migliore.

giovedì 23 maggio 2013

Vola vola vola la violenza


Sì, classi sociali, divisione del lavoro, sfruttamento dell'uomo sull'uomo... Tutto è terribilmente complicato, anche a farla semplice, a spogliare il re e lasciarlo nudo, come un lombrico, bello pronto per essere beccato dal primo merlo che passa. 
La violenza è una determinazione dell'umano in quanto specie animale tra le altre, eppure diversa e non stiamo qui a farla lunga sul perché e come e quanto sia diversa, cogliamo al volo questo dato e via.
Ma la violenza intraspecifica dell'uomo (come vedete evito di parlare della violenza dell'uomo sulla natura, dettata da mere ragioni di sopravvivenza) è qualcosa di affatto particolare, a me viene sempre in mente la scena dei primordi, come magnificamente è stata rappresentata da Stanley Kubrick.

Gli umani, insomma, spesso si ammazzano. E ammazzarsi non è che sia tanto simpatico, il sangue che scorre provoca comunque un pensamento, una riflessione: non sarà mica che quella cosa rossa scorra anche dentro me? Calma, ragioniamo, inventiamo un totem, un dio, un qualcosa che possa frenare, contenere questa peste che ci contagia tutti. E giù riti religiosi a scorrere, sacrifici e umani (prima) e animali (poi), e preghiere, e voti. Meglio che muoia un uomo solo che perisca tutto il popolo. Massima politica per eccellenza, roba da sacerdoti e politici finissimi, appunto.

Ogni società si fonda sulla violenza e coloro che gestiscono questa violenza (ne hanno il monopolio giuridico) guidano la società.
Le leggi sono somministrazioni, a volte in dosi omeopatiche, a volte in dosi da manganello, della violenza incanalata nel perimetro dello Stato. Dire: «Io sono dalla parte della Legge», significa dire «Io sono dalla parte di un esercizio controllato della violenza da parte di un'Autorità riconosciuta». Ogni violenza che cozza, che lede, che graffia tale Autorità, è violenza fuorilegge.

La violenza contro un'Autorità costituita diventa legittima quando il paravento legislativo non è più sufficiente a coprire i reali interessi di classe (la classe che è al potere). 
Quello che frega, nelle moderne democrazie liberali, è che chi è al potere lo fa con una legittimità “democratica” garantita da costituzioni che si fondano su principi bellissimi.

Come si fa infatti a ribellarsi contro coloro che si richiamano alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani?
Il monopolio della violenza non è mai stato così al sicuro.

P.S.
Il titolo, oltre all'Ape Maia, mi rammenta questa meraviglia:

venerdì 24 agosto 2012

All'uomo niente sarebbe più utile dell'uomo

«All'uomo dunque niente è più utile dell'uomo; gli uomini cioè non possono desiderare niente di più efficace alla loro conservazione di questo: che tutti convengano in tutte le cose in modo che le menti e i corpi di tutti vengano quasi a comporre una sola mente e un solo corpo, e che tutti insieme, per quanto possono, si sforzino di conservare il loro essere, e che tutti insieme desiderino per sé l'utile comune. Da tutto ciò segue che gli uomini che si governano con la ragione, cioè gli uomini che ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e che perciò essi sono giusti, fedeli, onesti.»
Bento De Spinoza, Etica, 1677, Parte IV, Prop. 18, Scolio. Ed. Bollati Boringhieri, Torino 1959, traduzione di Sossio Giametta.

Che tutti convengano in tutte le cose in modo che le menti e i corpi, i corpi e le menti, di tutti, di tutti gli umani vengano a comporre una sola mente e un solo corpo, un solo corpo e una sola mente, e che tutti insieme, tutti insieme, per quanto possono, per quanto possiamo, si sforzino, ci sforziamo, di conservare il nostro cazzo di essere, e che tutti insieme desideriamo per noi l'utile comune, cioè l'utile di tutti, nessuno escluso. Da ciò dovrebbe seguire che finalmente la ragione prenderebbe le nostre redini, perché ricercheremmo il nostro utile sotto la sua guida, non appetendo per noi niente di più e niente di meno dagli altri uomini e dalle altre donne - e perciò stesso saremmo per una buona volta giusti, fedeli, onesti.

Spinoza sotto questo cielo eterno
i colori non sono di paradiso:
sulla maggior parte dei visi
si legge il libro dell'inferno.

All'uomo niente è più dannoso dell'uomo, poiché la ragione non è strumento condiviso. 
La ragione è usata massimamente affinché pochi uomini sfruttino la moltitudine, senza prendere in considerazione nemmeno per un momento l'ipotesi che questa è la più grande, inequivocabile ingiustizia del mondo. 
La ragione regala letizia a pochi a scapito di tristezza per molti. 
La ragione è lo scettro del potere: sua prima forza. 
La ragione è ancora maledettamente antidemocratica, espulsiva e non inclusiva - e i corpi subiscono questo rifiuto, la mente è ai margini. 
La ragione è sempre puntuale: siamo noi uomini ad essere in ritardo. 
La ragione come guida della nostra storia: c'è ancora da preoccuparsi.

giovedì 15 marzo 2012

L'arte e la vita

«Se potessi aver questa cosa, – dice Balzac in una delle sue novelle, – non scriverei romanzi, ne farei”. Eppure ogni volta che un artista, invece di porre la propria felicità nella sua arte, la pone nella sua vita, prova una delusione che è quasi un rimorso; e ciò l'avverte con certezza di essersi sbagliato. Onde scrivere un romanzo o viverlo non è affatto la medesima cosa, checché si dica. E tuttavia la nostra vita non è totalmente separata dalle nostre opere. Tutte le scene che vi racconto le ho vissute. Come potevano dunque valer meno in quanto scene della vita piuttosto che in quanto scene del mio libro? Lo potevano; perché nel momento in cui le vivevo era la mia volontà a conoscerle per un fine di piacere o di timore, di vanità o di cattiveria. E la loro essenza intima mi sfuggiva. Avrei potuto figgervi gli occhi con tutte le mie forze, mi sarebbe sfuggita egualmente.» Marcel Proust, Jean Santeuil, Einaudi, Torino 1976 (traduzione di Franco Fortini).
Proviamo a ripetere: ogni volta che un blogger, invece di porre la propria felicità nei suoi post, la pone nella sua vita, prova una delusione che è quasi un rimorso... Fa un effetto strano, vero?
Ma aldilà del fatto che, come blogger, non abbiamo bisogno di specificare che la nostra vita non è separata dai post che scriviamo, così come non occorre precisare che tutte le scene che raccontiamo non sono state davvero vissute, questo brano proustiano getta luce su un fatto: occorre rielaborare i propri vissuti perché, nel momento in cui li viviamo, l'esercizio della nostra volontà ci impedisce di cogliere l'«essenza intima» di quello che stiamo vivendo. I vissuti sono coperti, cioè, dal velo di Maya dei nostri turpi o nobili fini – e l'arte è un ottimo strumento per scoprilo¹.
Prendiamo un bell'abbraccio, di qualsiasi genere, tra genitore e figlio, tra fratelli, fra amici, fra amanti. Nel momento in cui lo viviamo sentiamo: a) la sua finitezza e il conseguente struggimento; b) il piacere e il timore di lasciarsi andare; c) la presunzione di sentirsi importanti per qualcuno e/o sentirsi in debito di amore o amicizia verso qualcuno.
Nell'attimo stesso in cui uno vive tale abbraccio, la mente elabora in fretta tutte queste cose che non hanno modo di uscire fuori di noi ed essere, quindi, espresse nella loro completezza. L'arte “serve” a recuperare tali attimi per ripresentarli e rappresentarli alla mente con una forma che, nel momento in cui sono vissuti, non hanno e non possono avere.
Questo vale per qualsiasi genere di vissuto, non solo “bello” purtroppo.

Mi fermo. È andata via la corrente elettrica, s'è spento il pc, ho perso qualche frase e il filo del discorso e non voglio perdere il capo per ritrovarlo. Non ho voglia d'infrenarmi.

¹Ammesso e non concesso che il blogger sia un'artista. Per brevità crediamolo. 

lunedì 16 gennaio 2012

Pensare e parlare sono quasi la stessa cosa. Quasi

«Tuttavia le società segrete cercano mezzi per favorire psicologicamente il silenzio che non è direttamente coercibile. Il giuramento e la minaccia di punizione vengono qui al primo posto e non hanno neppure bisogno di essere commentati. Più interessante è la tecnica, che si incontra abbastanza spesso, di insegnare come prima cosa ai novizi a tacere sistematicamente. Innanzitutto, di fronte alla difficoltà di tenere completamente a freno la lingua [...] soprattutto considerando il nesso facilmente rilevabile esistente a livelli più primitivi tra pensiero ed espressione - per i bambini e per molti popoli che vivono allo stato primitivo pensare e parlare sono infatti quasi la stessa cosa - bisogna imparare a tacere in assoluto prima che ci si possa aspettare il silenzio di determinate rappresentazioni».

Georg Simmel, Il segreto e la società segreta, SugarCo Edizioni, Varese 1992 (traduzione di Giuseppina Quattrocchi, titolo originale: Das Geheimnis und die geheime Gesellschaft, 1906-1908).

Pensare e parlare erano, infatti, quasi la stessa cosa. Non è più così da tempo, da molto tempo. Le parole si sono allontanate, a esse corrisponde difficilmente la cosa che esse dicono di essere. A ogni parola corrisponde una maschera. È dietro la maschera che si nasconde la cosa. Il potere, soprattutto, fa un uso sfrenato della rappresentazione, del simbolo dietro al quale si cela soltanto un esercizio di dominio. Il problema è che per togliere la maschera al potere si corrono dei rischi, poiché il potere non è che sta lì bellin bellino a farsi smascherare per mostrare al mondo il suo vero volto.

Ma lasciamolo perdere il potere, parliamo io e te, amica, e ti rendi conto che se fosse vero tutto quello che dico io sarei... cosa sarei? Beh, dillo tu. Usa una parola o due, che le mie tanto sono finte, le mie vanno in giro a cercare di rappresentare quello che penso, ma quello che penso, poi, difficilmente riesco a dirlo a voce alta, figuriamoci a farlo. Vorrei che corrispondessero pensiero e parole, soprattutto: pensiero, parole e azione. Andare fuori per il mondo e dire tutta la verità, nient'altro che la verità, anche cose semplici, tipo, madonna come tu puzzi di sudore, ma lo sai che mi stai veramente sul cazzo, non riesco a seguirti perché quando parli mi viene lo struggimento ai coglioni? Molti si fanno vanto di essere diretti, sinceri, spontanei - ma in fondo non lo sono mai veramente: è difficile dire fino in fondo quello che si pensa, e - di conseguenza - quello che si pensa troppo spesso rimane a mezz'aria, inespresso, come la mia mano che si ferma prima di avvicinarsi troppo al tuo... volevo dire cuore.

venerdì 9 dicembre 2011

A rasonuvola


Voi capite, il cielo richiede condizioni particolari per disporre le nuvole come un lago dove tuffare i pensieri del passato, farceli nuotare come due giovani sorridenti che si godono corpo e anima facendo finta di essere felici.
Voi capite quanto sia frustrante non saper volare in certe occasioni, a rasonuvola, senza ali, senza motori - e se chiudo gli occhi e immagino di farlo, voi capite, non è affatto la stessa cosa, lo stesso sogno.
La natura non ha l'obbligo di emozionarci; siamo noi che abbiamo il diritto del contrario. In fondo, cosa sarebbero queste nuvole senza noi che le stiamo a guardare, ora? Un semplice nulla, una composizione di vapore acqueo e altri agenti inquinanti - del quale gli abeti intorno se ne sbatterebbero i rami. E finalmente, con somma presunzione, provo a definire uno dei possibili significati della nostra presenza di esseri coscienti. La natura aveva bisogno di qualcuno che la raccontasse, si sentiva sola, aveva bisogno di memorie. Ne siamo una, noi umani, moltiplicata per millanta. La chiamano memoria collettiva, e se in essa, un giorno, qualcuno troverà traccia di questo pensiero inutile, vorrà dire che ho strappato un piccolo fiore al caso, una manciata di senso che bagna la pelle senza piovere. 

domenica 2 ottobre 2011

Ombre della perfezione

Vale la pena leggere le meditazioni weiliane di Morena Martini. E parto dalla sua conclusione.

Oggi il mondo è ingiusto, lo sappiamo bene. Ovunque, non si sentono che lamentazioni. Il problema sorge quando ciò che percepisci tu come ingiusto, e poi quel che è ingiusto per me, non collimano, si sbilanciano. Tu avverti la tua indignazione nei confronti dell' ingiustizia a te cara come assoluta priorità, e così affossi la mia, di cui non t'accorgi. Potresti guardarmi morente, e non cambieresti opinione, dentro di te.
Serve l' ordine. Una perfetta scienza sociale. Come si fa. Ed ho appena scoperto che non c'è alcuna via di scampo. Bisogna amarsi. Il resto sono chiacchiere.

Sono pronto, le vorrei dire. Ma pronto a che? L'unica cosa là fuori disposta ad abbracciarci in completa gratuità sono gli alberi, forse, almeno quelli che restano, integri, e non ancora offesi. Questo imperativo sociale dell'amore implica la possibilità di guardarsi negli occhi con chiunque, per scoprire nell'altro un altro io che chiede giustizia e aiuto. Più spesso, però, negli occhi dell'altro intravediamo le nostre paure. Legittime paure di chi troppo spesso ha visto la belva umana addentare la carne dell'innocente.
Non siamo perfetti e il principio primo di ogni tranquilla vita sociale è riconoscerlo. E soprattutto, non aspirare a diventarlo. Certo, Cristo da qualche parte dice: siate perfetti - ma lui scherzava e lo sapeva bene. Duemila anni dopo lo possiamo dire con sicurezza: la perfezione è sinonimo di sterminio. “Perfetti” sono solo coloro che tali non si riconoscono e mettono sul mercato i loro difetti, le loro paure, le loro miserie e meschinità. Il primo passo verso la guarigione, è risaputo, avviene quando uno prende coscienza della propria malattia. Ostinarsi a credere nella nostra santità, ovvero a ritenere che il confine dei nostri cento anni sia l'eterno, è il più grande inganno compiuto dall'uomo sull'uomo. Bisogna insegnare a saper morire fin da piccoli, ricordarlo ogni giorno, così come ricordare che sesso e morte sono intrinsecamente legati, gioia e dolore, salute e malattia. Non voglio farla lunga sentenziando cose note, precetti di saggezza che i sapienti di ogni tempo non fanno che ripeterci. Voglio solo sùggere la vita, non suggerirla, stagione dopo stagione, mano dopo mano, abbraccio dopo abbraccio. 
La perfezione diventa solo un'ombra dietro il castagno; passa un cane e ci orina contro.

sabato 10 settembre 2011

L'oscurità non si dirada

«L'oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell'oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate e raccontate ad altri da nessuno».
W.G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2002 (pag. 31, traduzioni di Ada Vigliani)

Esistesse un libro dei ricordi generale dove tutto fosse annotato, tutti i vissuti, gli accadimenti, le vicissitudini, i pensieri, quanta parte di mondo occuperebbe?
Ma soprattutto: se Dio esistesse, ne farebbe una selezione? O avrebbe una mente capace di ricordare tutti i ricordi contemporaneamente, come un impareggiabile motore di ricerca? E in quest'ultimo caso: quanta elettricità consumerebbe, Dio, per fare questo? 
Ah, già... Dio va a nucleare...