«In
Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani
non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo
vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che
portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee,
tutte venute fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata
da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei
bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina
d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non
lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi
e svuotati lo stesso
[…]»
«Il
sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi
li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali. […]
Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche
le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le
schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte, la nostra
pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro
aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi
del nirvana.»
Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli,
Milano 1969 (Parte Quarta).
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