Te lo dissi, tu ripetesti, fummo d'accordo
sul fatto che nessuno avesse ragione:
rara virtù umana il riconoscere
di essere entrambi dalla parte del torto.
Ingenui, tuttavia, credemmo che
dagli errori avremmo imparato
a prevedere quando sarebbe stato
il caso di fermarsi, per non sbagliare più.
L'aurora, che ci investiva ogni mattino
separandoci dai sogni, dimostrava
invece quanti chilometri da percorrere
ancora c'erano per mantenere il proposito.
Allora lanciavamo i desideri altrove
in un punto lontano da noi stessi
per donarci un po' di consolazione
ché soddisfarli non era stato possibile.
E piangevamo con cognizione di causa
per non restare indifferenti, per patire
piuttosto che avere l'impressione
che il corpo appartenesse a qualcun altro.
Poi ci prendevamo a schiaffi, per convenzione.
O meglio: io li prendevo perché non ce la facevo
a imitare la tua rabbia, a sfogarla
sul mio non essere più in grado
di darti amore e il resto conseguente.
E fummo a noi stessi degli assenti
anche se dall'appello risultava
che eravamo davanti l'uno all'altra.
E la sera ci raccontavamo a turno
la storia triste del nostro amore perso
gettato ai bordi della strada come
plastica che il terreno non assorbe, no.
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