sabato 12 gennaio 2008

Cenere

Cenere sei e cenere ritornerai, pensavo tra me e me vicino alla finestra, guardando un cielo giustamente grigio, parlandoti e ascoltandoti, felice di esserti, di averti accanto.
Eppure in questo frangente corporale, in questo miscuglio di memi e geni, cellule e pensieri vari che ci caratterizza, in questi istanti in cui al vivere, al basso fruscìo dell’esistenza, all’adagio della quotidianità, si mescola e si frappone un senso forte di appartenenza – ecco che sentivo un brivido scendere lungo la spina dorsale, un fremito. Attimi in cui dicevo a me stesso – possibile sia io capace di cogliere un nesso, un frangente della mia unità col mondo, nel momento stesso in cui la vivo, senza girarmi indietro, senza aspettare che il momento, appunto, sia passato e lo rifletta nella mia mente?
Allora giunse il momento del commiato. Io costretto a un lavoro triste, tu esitante avviarti verso le scale, trascinando dietro te una scia di dubbi e di incertezze. Petali, forse, erano quelli che avrei voluto veder scivolare dietro il tuo paltò, come un tappeto da corpus domini, nelle calde sere di giugno, copre i mattonellati dei paesi di provincia. Petali di sette colori diversi, tutti impressi come un arcobaleno nel tuo cuore.
Petali petali amatamente dissolti
Nelle alte dilavate erbe
E laggiù, tra i meli,
stralunati presagi di sera.
Sapevo che la tua presenza si sarebbe protratta anche nell’assenza; e questo mi calmava, sedava quasi, e rendeva docile lo scorrere del tempo.
Fu l’invito a non perdersi d’animo, a non dar troppo peso alla pesantezza della collega, a lasciar perdere, perché perdere significava diventar leggeri. E chi, come me, ambisce a camminare sulle punte dei piedi per non far rumore, o a concedermi salti sui campi incolti di fine inverno, non potevo far sì che la gravezza mi piombasse a terra, mi opprimesse.
– Via via, correre via lontano, la mente sgombra. I petali sono ancora là nel corridoio, incalpestabili. Solo io ne farò scia, scivolando, libero, contento.
Chissà se ti dispiacerà se faccio un po’ di letteratura con la propria miseria. Esiste una frase, una frase dogma, che si è scolpita indelebile nel mio costato: l’ha scritta Danilo Kis, in Clessidra immenso capolavoro, ed essa dice: è meglio trovarsi tra i perseguitati che tra i persecutori.
Siccome credo che il Vangelo si sia continuato a scrivere oltre l’Apocalisse, e si scriva tuttora nelle pagine di sofferenza, dolore, amore e carità che gli umani ancora sono capaci di vivere, ebbene, ecco che tale frase può, anzi deve essere inserita nel canone, e letta ad alta voce non solo dagli altari.
Ma oggi ti ho visto seria, nera a tratti, incazzata (scusa le zeta) e questo mi ha fatto male; negli occhi tuoi si leggeva il rimprovero come di chi dica, forza, prendi le armi contro il mare di guai. E adesso sì, ho l’armatura pronta; ma, contrariamente ad Amleto, non voglio pugnalare nessuno, solo acquisire un briciolo di follia che mi spinga a sputarle addosso tutta la verità nient’altro che la verità, senza infingimenti. Questo presente vissuto bene, dopo una piccola crisi del turigliatto deve passare. Ho visto la fiducia tua e in altri (altre) e l’animo mio è pronto. Gloria del disteso mezzogiorno. Leggi. Pensa. Scrivi. Corri nel bosco. Bosco ad alto fusto. A colpi d’ascia.
E poi un piccolo rifugio nei Mottetti montaliani mi ridona freschezza e spirito. Pensarti mi libera la fronte dai ghiaccioli che raccolsi traversando le alte nebulose.
E infine questa perla letta domenica di Leonard Cohen e che ho subito fatto mia (oh come avrei voluto scriverla, pensarla io, ma è lo stesso, qualcuno l’ha fatto per me, per noi, per il mondo):
INFASTIDITO STAMATTINA
Ah. È questo
È questa la cosa da cui
Ero tanto infastidito stamattina:
il mio desiderio è tornato,
ti voglio di nuovo.
Stavo così bene,
lo dominavo completamente.
Ragazzi e ragazze erano belli
E io ero un uomo vecchio, che ama tutti
E adesso, di nuovo, voglio te,
voglio la tua totale attenzione,
la tua biancheria che scivola giù in fretta
e resta appesa a un piede,
e nella mia testa niente
se non essere dentro
l’unico luogo
che non ha
un dentro e non ha un fuori.
Dunque. I tuoi petali distesi, il sereno nei tuoi occhi, e cercare di guardarti senza far capire troppo quanto mi piace guardarti. Così devio spesso lo sguardo, attenuo spesso il riso, e il piacere che mi dà l’averti accanto, per il timore di metterti (e mettermi) in imbarazzo.
Ma guardate qui, a giocare a rimpiattino coi sentimenti, come se non fosse giusto confessarli a chi ne è l’artefice. Questo mi dico, ma in fondo non è vero. Non nascondo nulla. Basta contare fino a tre e son scoperto, a mani aperte, pronto. Mi piaci e ti voglio bene. Questo è tutto. È troppo? Troppo cosa? Mi piace esserti accanto e basta. Sapere che ci sei. O che sei passata di là dove io sono a vederti passare lo stesso. Cammino, ripeto, tra i tuoi petali. Con piglio deciso ho deciso. A domani.

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