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sabato 8 ottobre 2011

La scrittura ci scrive

Non condivido il pessimismo di Fabristol, forse perché, contrariamente a lui, non mi lamento dell'inutilità della scrittura-lettura nella rete. Per me - concesso che lo sia - tale inutilità è una cosa necessaria, in quanto considero il blogging uno dei banchi di prova dell'individualismo moderno. Bloggare, infatti, consente all'individuo di manifestare il suo pensiero attraverso parole, immagini, suoni senza altra pretesa che quella di far uscire dall'io-ricettacolo delle rappresentazioni, una piccola porzione di rappresentazioni che lo rappresentano (e mi scuso del pasticcio rappresentativo).
«Quando scrivi - una forma qualsiasi di scrittura - ti accorgi se ti stai avvicinando alla “cosa” oppure no. Avverti una sorta di meccanismo sensorio, una specie di feedback continuo senza il quale non si potrebbe scrivere. È ingenuo pensare che la scrittura sia un semplice processo in due tempi: prima decidi cosa vuoi dire e poi lo dici. Al contrario, come tutti sanno, scrivi perché non sai cosa vuoi dire. È la scrittura a rivelarti quello che volevi dire, anzi a volte è lei che costruisce quello che vuoi o che volevi dire. Quello che rivela (o asserisce) può essere anche diverso da quanto all'inizio credevi (o immaginavi) di voler dire. È questo il senso in cui si può affermare che la scrittura ci scrive. La scrittura mostra o crea (e non sempre siamo in grado di distinguere una cosa dall'altra) quello che era il nostro desiderio un momento prima». J. M. Coetzee, Doppiare il capo, Einaudi, Torino 2011 
E io avevo desiderio di essere e non sapevo come fare a soddisfarlo. Ho cercato vari modi, ma nessuno mi si è mai confatto come questo (del blog). E non voglio nemmeno indagarne le ragioni inconsce che stanno dietro tutto questo. Tiro avanti, scrivendomi addosso e non sapendo mai esattamente dove andrò a parare. Solo a post compiuto mi si rivela un barlume di senso. Le più volte mi ci riconosco, e sorrido soddisfatto. Io sono questo e questo e soprattutto, come diceva un filosofo pazzo, non scambiatemi per altro.

lunedì 7 marzo 2011

I Love You Elizabeth


Con i libri succedono cose senza che nemmeno te le aspetti. Per esempio, io prendendo dallo scaffale Elizabeth Costello di J. M. Coetzee non mi aspettavo un granché. Dato che non sono un lettore vorace, dato che sono un lettore lento, dato che per me – non so perché in realtà non me lo ricordo, la pelle? Sì, forse la pelle, ma la pelle a volte si sbaglia – Coetzee non stimolava un contatto e nutrivo una inspiegabile avversione verso tale autore (ma perché?).  Tuttavia, ho aperto il piccolo libro nell'Edizione Tascabile dell'Einaudi, ho dato una scorsa all'indice e al titolo dei capitoli, li ho visti, all'apparenza agili, e poi ne ho visto uno intitolato Il problema del male, allora ho detto, beh, proviamo, chissà cosa avrà da dire Coetzee. E da dire ne aveva, ne ha, e molto. 
È un libro strano, di difficile definizione. È una finzione di conferenze. Elizabeth è un'anziana famosa scrittrice australiana che va in giro per il mondo a ricevere premi, o a trovare la sorella in Africa, o in crociera. Un personaggio che spero di incontrare, da qualche parte, incarnato in chissà chi.
Non ho voglia di fare una recensione dettagliata. Ma vi chiedo – per chi non l'avesse fatto – di cercare e leggere questo libro, partendo proprio dal capitolo quattro Il problema del male. È un testo pieno di rimandi metaletterari, d'accordo, a volte scontati ma nel senso più nobile: ovvero restituiti in una forma alla portata delle nostre menti. Lucido Cotzee. A tratti spietato. Splendidi tocchi di ironia, di cattiveria, e di profonda sensibilità. Un'umanità da abbracciare, una donna, Elizabeth, di cui vorreste essere figlio o amante. Confusamente, pericolosamente.
Vorrei citare estemamente brani, ma è difficile isolarli dal contesto. Strappo solo questi, uno dal capitolo Eros:
Magnificat Dominum anima mea, si crede che Maria abbia detto dopo, ma forse equivocando un Magnam me facit Dominus. E questo è più o meno tutto ciò che dice nei Vangeli quella fanciulla incomparabile, che sembra ammutolirsi per il resto dei suoi giorni, dopo quello che le è capitato. Nessuno intorno a lei è così spudorato da chiedere: Com'era? Cos'hai provato? Come hai fatto a sopportarlo? Eppure quelle domande devono certamente essere balenate nella testa della gente, delle sue amiche di Nazareth per esempio. Come ha fatto a sopportarlo? devono aver sussurrato. Dev'essere stato come venir scopate da una balena. Dev'essere stato come venir scopate dal Leviatano; arrossendo mentre pronunciavano quella parola, le ragazzine scalze della tribù di Giuda, così come lei, Elizabeth Costello, si sorprende a sua volta ad arrossire, mentre la scrive.
O ancora, dal capitolo Davanti alla porta:
- […] Crede in Dio? 
Se crede in Dio? È una domanda dalla quale preferisce tenersi alla larga. Ammesso che Dio esista – qualunque cosa voglia dire esistere –, perché mai il suo regale, potente sonno dovrebbe essere disturbato dal basso, da un clamore di credo e non credo, come in un plebiscito?
Cosa dire di più? Mi sono innamorato di Elizabeth perché mi letifica l'anima.