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domenica 17 marzo 2024

Sicilia amore mio

Le mani di Sciascia, gli occhiali di Bufalino, le giacche e le cravatte, i libri.

https://www.raiplay.it/video/2019/10/Bufalino-una-civile-inquietudine---Bufalino-e-Sciascia-Sicilia-amore-mio-8ef50b02-a388-4716-9007-6e0c6981fcaf.html 

domenica 10 settembre 2023

domenica 5 giugno 2022

Suggerimento pratico

 «Permettetemi di darvi un suggerimento pratico. La letteratura, la vera letteratura, non deve essere tracannata come una pozione che può far bene al cuore o al cervello - il cervello, lo stomaco dell'anima. Bisogna prenderla e farla a pezzetti, smontarla, spiaccicarla - e allora il suo amabile profumo si farà sentire nel cavo del palmo e la sgranocchierete e ve la farete passare sulla lingua con godimento; allora, e solo allora, la sua squisita fragranza potrà essere apprezzata nel suo vero valore e le parti frantumate e schiacciate torneranno a unirsi nella vostra mente e riveleranno la bellezza di un'unità alla quale avrete contribuito con qualcosa del vostro sangue»
Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura russa, Garzanti

domenica 10 gennaio 2021

Il comportamento privato del lettore

 «Si l’écrivain avait la possibilité d’assister, invisible, au genre de tête-à-tête qu’entretient, dans la solitude, un de ses lecteurs avec un de ses livres, il serait sans doute choqué du « sans-façon », et même de l’extrême incivilité qui s’y manifeste. Ce tête-à-tête est un mélange déconcertant de distraction et d’attention. La lecture est coupée, le plus souvent à des intervalles inégaux et assez rapprochés, par des pauses de nature diverse où le lecteur allume une cigarette, va boire un verre d’eau à la cuisine, ou replace un livre dans sa bibliothèque, ce qui l’entraîne à en feuilleter un moment un autre, téléphone une commande qu’il avait oubliée, ou s’informe des résultats du tiercé, vérifie l’heure d’un rendez-vous sur son agenda, ou repose un moment le livre sur la table pour une rêvasserie intime, dont le seul lien avec le contenu du livre est souvent celui du coq-à-l’âne.» Julien Gracq

Negli ultimi anni, leggo spesso i libri di poesia, che vado comprando, al cesso. Dello scaffale da bagno di Ikea, tengo un ripiano apposito: fanno bella mostra di sé, sopra la carta igienica di ricambio e sotto il rasoio, il sapone da barba, il dentifricio, il filo interdentale, lo spazzolino e il bicchiere che lo contiene, più delle forbicine e un pettinino apposito per i baffi, le ultime raccolte - splendide - di Patrizia Cavalli (Vita meravigliosa) e Louise Glück (Averno).

I versi, sciolti o meno, scorrono via a volte silenziosi a volte pronunciati a fil di voce, come per assaporarne il gusto, sillaba dopo sillaba. La corporalità della Cavalli è bilanciata dai versi eterei della Glück. È un esempio di come, non raramente, seduto in questa stanza, con un libro che accompagna le mie meditazioni corporali, percepisca quanto la realtà sia fluida e come sia possibile scaricarla, dopo averla assunta e un poco assorbita. 

Sostiene la poeta americana: «L'arte ci salverà dalla catastrofe della pandemia».

Può essere - epperò confido più nel Supernalotto.

E giuro che, se vincessi, da Boston a San Francisco piuttosto ci andrò a piedi, anziché noleggiare un aereo privato coi soldi del Nobel, come un coglione.

domenica 11 ottobre 2020

La Seggetta dei Destini

 
Roberto Calasso, La tavoletta dei destini, Adelphi, 2020

 
Era una tempesta diversa da tutte quelle che lo avevano inzuppato, come biscotto nel caffellatte. E ormai era abituato ai nubifragi macchiati. Scandinavo il tempo (svedese?). Servivano a zuccherare. Una certa cosa era successa prima del terzo naufragio: si era pisciato addosso. Un'altra dopo il quinto: tre per sei diciotto. Sindbad sentiva il caldo sulla coscia, strana sensazione, prima piacevole, poi umido su umido, senza sollievo. Non solo aveva preso la gotta, ma punti cardinali erano vescovi. Fu la sua penultima osservazione imprecisa. Non poteva dire nulla di ciò che era avvenuto subito dopo, fino al momento in cui gli si era mosso l'intestino sotto una tenda. Un olezzo la scuoteva leggermente. Aveva dormito quanto? Giorni? Anni? Mezz'ora, poi dovette, nell'oscurità, uscire di tenda per non fare una figura di merda, immobile, distesa.

mercoledì 29 luglio 2020

Nuotare (Correre 4)

4. È un mio limite culturale, ma io i Lovin' Spoonful manco sapevo esistessero se non li avesse rammentati Murakami che li tira in ballo nuovamente per dire che la loro musica è fantastica. Per curiosità, ho provato ad ascoltare due o tre canzoni di tale gruppo e non dico che mi abbiano fatto cagare, ma insomma, qualche strizzone non nego sia venuto. Per fortuna avevo il bagno vicino. È così, quando ho nelle orecchie questa musica leggera leggera, sciolta sciolta, a poco a poco riaffiora nell'intestino il ricordo dell'andare di corpo, anche di quella volta che, a quattordici anni, marinai la scuola (prima liceo), da solo, per passare la mattinata di primavera a leggere Corto Maltese e Supersex, quando, improvviso, nel parco dove mi trovavo, fui assalito da un urgente bisogno di andare in bagno e corsi stringendo le chiappe e arrivai pelo pelo al water di casa. Corto Maltese mi cadde per le scale, mentre Supersex finì ai piedi del lavandino, aprendosi alla formula orgasmica Ifix tcen tcen...
Se facessero mai un film sulla mia vita - solo a pensarci mi vengono i sudori caldi -, in fase di montaggio verrebbe aggiunto quasi tutto. Il regista finirebbe col dire ogni momento: «Beh, questo episodio si può anche aggiungere, con quel poco che hai da raccontare». Proprio così, ho poco da raccontare, traccheggio in balia del quotidiano gioco balordo dei non incontri e dei non inviti, momenti che si succedono senza un significato preciso, fino ad arrivare al presente. Quando penso all'esistenza umana (giacché a volte penso anche all'esistenza canina o gattesca), mi accade di aver l'impressione di non essere una zattera arenata sulla spiaggia, piuttosto una carretta che aspetta l'inverno per portare la legna in casa (Murakami pensa di essere una zattera, ma nel mondo occidentale chi fa più le zattere se non al parco divertimenti degli uomini primitivi?). Sarà stato colpa dell'aliseo hawaiano che, soffiando e facendo ondeggiare dolcemente gli alberi di eucalipto sopra la sua testa, gliel'ha fatta girare per il forte effetto balsamico di vicks vaporub naturale.

Comunque, oggi non sono andato a correre: sono stato a nuotare, di mattina, in una piscina comunale, all'aperto. Ho pagato il biglietto d'ingresso, ho firmato il foglio della presenza e del tracciamento e sono andato negli spogliatoi a cambiarmi senza - come da regola - lasciare niente nel locale (si deve portare tutto dietro, in borsa). Le prime quattro corsie della vasca da 25 metri erano occupate da un folto gruppo di ragazzini dei centri estivi che eseguivano esercizi indicati dagli istruttori. Una istruttrice, alla quale ho levato malvolentieri gli occhi di dosso (se ne avessi avuto un altro paio, due glieli avrei lasciati addosso volentieri), mi ha indicato la corsia n. 5 come libera e ivi mi sono non tuffato, ma infilato, per nuotare come posso e riesco, a stile diciamo libero, e recuperando un po' di fiato a ogni virata. Sono stato quaranta minuti a mollo e ho percorso poco più di un chilometro, non molto, ma già qualcosa per uno che si è messo a fare piscina relativamente da poco. Ho avuto fastidi con gli occhialini, purtroppo, perché non oscurati, cosicché il sole riflesso nella vasca non mi consentiva una buona visuale (soprattutto esterna, nella zona dove c'era l'istruttrice che dava lezione a due signore che facevano acquagym). Infine, sono tornato negli spogliatoi e, nella zona docce (c'era scritto: max tre persone alla volta) c'erano due ragazzini di forse sette anni che si lavavano. «Posso entrare?» ho chiesto e loro mi hanno guardato in silenzio (non so se assenso) sicuramente mormorando, tra sé sé: chi è questo perticone secco coi baffi e la cuffia rossa morettiana? «Tranquilli, non tiro schiaffi, purché non vi azzardiate a dire la parola professionalità». 

martedì 28 luglio 2020

Correre 3


3. Come detto precedentemente, quello che segue è un ricalco imperfetto de L’arte di correre di Murakami Haruki. Dato che, per ovvi motivi, non posso riportare per intero le pagine di tal libro, dovete o leggere questi miei brevi capitoli con il volume accanto, oppure fidarvi. «La seconda che hai detto», sento bofonchiare qualche lettore.


Quando corro, al momento, non mi prefiggo altro obiettivo che ritrovare l’indomani il piacere fisico (faticoso piacere) che provo oggi. Sicché non cerco mai di esagerare perché, se mi stanco troppo, il giorno seguente il desiderio di correre è più difficile da appagare. Quando scrivo un post è fondamentalmente la stessa cosa. Anche se sento che potrei continuare, a un certo punto salvo la bozza, rileggo, clicco su “pubblica”. Così mi sarà più facile scrivere il prossimo post (una volta avevo una cadenza giornaliera). Murakami sostiene che Hemingway ha detto qualcosa di simile. Che cosa avrebbe detto Hemingway? Che l’importante è la continuità, non spezzare il ritmo. Nel caso di tenere aggiornato un blog è importante; nel caso di scrivere un romanzo, importantissimo. Se si riesce a mantenere un ritmo costante, un passo, qualche risultato bene o male (bene o male?) lo si ottiene. Ma occorre insistere finché il volano (o anche: la macina dell’asino) non comincia a girare regolarmente, a velocità fissa.

Oggi, mentre correvo, tra le 10:40 e le 11:30, nella ciclopedonale di Buonconte da Montefeltro, non è caduta neanche una goccia di pioggia: per forza, il cielo era sereno. Faceva caldo, ma non troppo  giacché la pista di terra battuta era quasi completamente ombreggiata dagli alberi che costeggiano l’Archian rubesto. È un clima facile da capire, questo. Come intuirete, sto parlando di meteo perché e come ne parla Marukami, per traccheggiare, ossia per perdere tempo. E il tempo facile da capire (e da perdere) non richiede interpretazioni particolari. E allora, perché ne parli? Così, per allungare il brodo (non è vero che tutto fa brodo). Per strada ho incontrato soltanto un corridore, un giovane, al mio primo chilometro, in senso inverso. Poi ho incontrato un gruppetto di ciclo-amatori in mountain bike (anch’essi in senso inverso), tre donne e un uomo a camminare, due di loro con un cane. Una donna, la più bella delle tre, l’ho incontrata che procedeva in senso inverso quasi alla fine della mia corsa di andata – ci siamo detti un fugace buongiorno e scambiati un sorriso (è stata lei che mi ha fatto faccia da ridere se no di solito non sorrido a coloro che volgono il volto, o tolgono il volto da qualsivoglia scambio di saluto) – e, così, ho avuto la possibilità, dato che lei camminava, al mio ritorno di raggiungerla (la ciclopedonale non è ad anello), superarla, sorriderle nuovamente e replicare al suo, «Buona corsa!», un imbranato «Altrettanto», tant’è che lei ha subito replicato «Eh, ma io cammino» ( se si mettesse a correre, signora, vedrà che terrò volentieri il suo passo).

Altro da segnalare? Sì, quasi  tutti coloro che camminano, quando qualcuno, da dietro, si avvicina correndo, si sentono a disagio, come se qualcuno stesse per assalirli alle spalle. Una volta superati, infatti, chi corre ha l'impressione che essi tirino un respiro di sollievo. Personalmente, voglio rassicurarli che, nel mio come nella maggioranza assoluta dei casi, non è così: chi corre, quando sta per superare qualcuno che cammina, cerca di aumentare il passo per mostrare che lui corre in scioltezza, pavoneggiandosi un po' per la propria presunta capacità atletica e badando bene a non inciampare per non incorrere in una figura cacina.

lunedì 27 luglio 2020

Correre 2

2. «Siamo in estate e quindi fa caldo». Cazzo, disse la marchesa. È opinione diffusa che nell’Italia centrale d’estate faccia caldo, soprattutto nei mesi di luglio e agosto. Poi, va bene, ci sono anche le altre stagioni, ognuna con le sue caratteristiche che non importa descrivere qui, perché scrivere sul tempo è scrivere di niente, un niente uguale a quando due persone che non hanno niente da dirsi iniziano a conversare sul tempo che fa – e si sentono, dopo averne parlato, più imbarazzate di prima, perché non hanno parlato di niente.
Qui dove abito non siamo alle Hawaii. Qui non soffiano gli alisei. Durante il dì (dalle 10 fino alle 20) fa caldo poi, se va bene (e quest’estate sinora è andata bene) la sera rinfresca e le temperature scendono abbastanza da sopportare una felpa, per uscire, o una coperta leggera sopra le lenzuola, per dormire. 

Da quando abito qui, cioè da sempre, ossia da quando sono nato, e sono nato più di mezzo secolo fa, ho preso a correre da poco, dallo scorso autunno. Niente di che, soltanto due o tre volte alla settimana. Ma quando sono in ferie di più, anche quattro o cinque volte a settimana. Io devo saltare un giorno o due, per riposarmi e soprattutto per non sfinirmi dato che sono magro come un’acciuga sotto sale e dopo ogni corsa, sebbene cerchi di reintegrare mangiando e bevendo quanto riesco e posso, perdo sempre un po’ di colatura. Almeno mi sembra. Mi asciugo, dunque mi acciugo. E struggo, come in un soffritto.

«Stamattina ho corso per un’ora e dieci minuti ascoltando sul mio walkman due album dei Lovin’ Spoonful». Io no, stamattina non sono andato a correre, ma ieri sì. Ho corso per circa un’ora e dieci minuti senza ascoltare alcuna musica. Talvolta le cuffie altoparlanti esterne classiche, a casa davanti al pc, le metto, ma gli auricolari proprio non li sopporto neanche da fermo, figuriamoci per correre. E poi, a pensarci bene, non riesco più a tollerare la musica perenne di sottofondo, quale che sia. Preferisco il silenzio, o meglio: il rumore, a volte anche piacevole, di ciò che mi circonda. Soprattutto: il respiro e il tonfo sordo dei passi. Una volta sola, correndo, mi è capitato di mormorare una canzone, tra i denti, perché forse avevo bisogno di carica: Everybody needs somebody to love.

«Sono nella fase in cui devo lavorare sulla resistenza e aumentare la distanza che percorro, mentre il tempo che impiego è irrilevante. Basta che copra in silenzio il numero di chilometri che mi sono prefisso, mettendoci le ore necessarie». Anch’io, uguale uguale, salvo che in silenzio, come ho detto, i chilometri li faccio davvero, senza gli auricolari e la musica attaccata alle orecchie.

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N.B.
Tutte le frasi «tra virgolette» (tranne dove diversamente indicato) sono tratte da L'arte di correre di Murakami Haruki, Einaudi, Torino 2009

domenica 26 luglio 2020

Correre

Capitolo primo

25 luglio 2020, ciclopista dell'Arno, Toscana, Italia.

Chi può permettersi di ridere di Murakami Haruki?

1. Oggi è il 25 luglio 2020, un sabato. Ciclopista dell'Arno, nella Toscana nord orientale. Il tempo è buono, non troppo caldo per essere nel periodo del Solleone. Passa qualche nuvola di panna, sicché non c'è bisogno di alludere all'idea di nuvole. Sto da queste parti, a casa mia. Ogni mattino, siccome non sono uno scrittore, ma un blogger, non mi metto alla scrivania a lavorare, ma perdo tempo, questo sì, con sporadici post scritti e pubblicati (compreso questo, s'intende). Adesso scrivo, non per scrivere un libro, ma dei semplici post, seguendo la traccia di un libro, L'arte di correre (Einaudi 2009) di Murakami Haruki, noto scrittore giapponese. Il libro è definito in copertina come «lo straordinario autoritratto di uno scrittore-maratoneta»; eppure io lo trovo un libro assai imbarazzante, nel senso che se l'avessi scritto io mi sentirei in imbarazzo, anche se, evidentemente, la soglia del pudore, in fatto di scrittura, è diversa per ognuno. Ora, dato che da pochi mesi ho preso a correre anch'io, voglio cimentarmi a scrivere qualcosa non sull'«arte» di correre (non avendola tale arte, non ho potuto metterla da parte e tirarla fuori alla bisogna, davanti alla tastiera) ma sul fatto che io corra e perché e come mi senta correndo, cercando di mantenere il passo dello scrittore giapponese, nel senso di seguire il suo primo capitolo quasi come Pierre Menard scrisse il Don Chisciotte di Cervantes, ma non uguale uguale, no, quasi uguale, e il quasi è dato dal fatto che io scriverò per togliermi quel senso di imbarazzo che ho leggendo questo libro. 

sabato 1 febbraio 2020

Per dindi Lipperina

La Lipperini, scandalizzata, su Facebook scrive:
«Il romanzo di Fontana, in lettura, è splendido. In lettura, ripeto. E i critici dovrebbero parlare dopo aver letto, perdindirindina.»
E senz'altro ella avrà ragione, ma, prima di dire perdindirindina, avrebbe dovuto considerare che i critici, in quanto lettori, hanno facoltà di scegliere che cosa leggere e aver dei sani pregiudizi: e qualsiasi romanzo che superi duecento pagine è pregiudizievole.

Poi, si dirà: ma i critici sono pagati per... per leggere e non leggere.
Immaginate un critico (classe 1937) che apre il pacco di libri che gli editori gli hanno spedito perché li "visioni" e, nel caso, li recensisca. E poniamo che tale critico abbia una rubrica settimanale su un quotidiano, per la quale è pagato, e nella quale è libero di scrivere di quel che più gli aggrada, settimana dopo settimana. Questa settimana, la cosa che più lo stupisce, sono tre libri di tre autori italiani, più o meno giovani, più o meno sconosciuti, le cui pagine, messe insieme, danno un totale di 2188. Può egli avere il diritto di criticare garbatamente, non il contenuto dei libri, ma tale abbondanza premettendo, appunto, che:
«Non so quando troverò il tempo di leggerli, e francamente non ne sento il bisogno.»?
Secondo me sì. Anche perché, per quel che mi riguarda, nonostante non dubiti che quei libri siano splendidi in lettura, credo che siano ancora più splendenti in non lettura, o anche: li potrei leggere soltanto se mi pagassero, per ognuno, almeno dieci volte il prezzo indicato in copertina.
Perdindirindina.

martedì 5 novembre 2019

Coattamente

Andrea Cortellessa, rinomato critico letterario e storico della letteratura italiana, professore associato presso il DAMS dell'Università degli Studi Roma Tre, dove insegna Letterature comparate e Storia della critica letteraria, in una lunga relazione tenuta in occasione dell'incontro Filologia e leggenda. Giornate di studio per Michele Mari, (Roma, ottobre 2019), «da par suo», scrive:
«Diversi incunaboli importanti del genere iconotesto, specie all’intersezione cruciale di questo con la vocazione autobiografica, mostrano questo stesso carattere “archeologico” o, per dirla appunto col lessico di Mari, “filologico” »
E più avanti:
«Un’altra comprova, di questo statuto sinora coattamente liminare dell’immagine, è la ridottissima parte a essa riservata da una produzione saggistica, quella di Mari, per la sua stragrande parte dedicata invece, si sa, alla letteratura del passato.»
Da dispari mio, ho la "comprova" che tutto, come il cesio e lo stronzio, decada. Anche la critica letteraria. Anche la letteratura italiana. Anche l'insegnamento della letteratura italiana, delle letterature comparate e della storia della critica letteraria. Io me li immagino gli studenti di Cortellessa prendere appunti durante le lezioni all'università in previsione dell'esame da sostenere coattamente, sul liminare dell'immagine per discutere dei «diversi incunaboli del genere iconotesto, specie all'intersezione cruciale di questo con la vocazione autobiografica» di stocazzo.

- 30!

domenica 20 ottobre 2019

Tossisca, prego

Ieri pomeriggio, stavo tossendo quando ho sentito alla radio parlare di Simenon e ho smesso perché la tosse s'è trasformata in rottura di coglioni. Non se ne può più di sentir dire dagli altri quanto sono bravi gli altri, in questo caso: quanto sia stato bravo e assai prolifico Simenon. Sono già di mio abbastanza Maigret, non ho bisogno di perdere peso o di prenderne abbeverandomi di lettere e romanzi e noir, devo limitare le perdite di tempo all'essenziale, quindi, ok, spengo la radio, riprendo a tossire per non dimenticare che dovrò scrivere questa cosa di Simenon scassamaroni.

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Nel considerare che il sistema economico e produttivo capitalistico e la competizione mercantile degli stati nazione determineranno, quanto prima, catastrofi ambientali e sociali diffuse  - con le oasi patronali dei signori in panciolle a vedere l'umanità accecata prendersi a brani - appare assai superfluo attardarsi in attenzioni verso i mediocri protagonisti della scena politica italiana. Primo, perché i gabbiani andrebbero studiati a fondo su come siano riusciti ad adattarsi alle discariche; secondo perché l'orgoglio italiano è una patologia curabile con dei semplici antidiarroici.

***
Nella misura in cui tutti si può parlare di calcio senza saper giocare a pallone, così - come un Mantellini o un prete - vorrei sparare una cazzata sulla musica leggera italiana contemporanea, in riferimento al cantante che per nome d'arte ha preso quello di un armatore napoletano e che è stato criticato per aver cantato una canzone di Tenco al Premio Tenco e non per essersi fatto accompagnare al pianoforte da Morgan. Ma a parte questo, a parte il "fotte sega" generale, il punto è: tra cinquant'anni, chi calcherà il palco dell futura musica leggera italiana, di quali canzoni d'oggi farà la cover?

***
Sappiamo che i poteri del Presidente della repubblica italiana sono limitati dalla Costituzione, ma io non capisco perché, in quanto supremo capo delle Forze Armate, durante la sua visita di Stato alla Casa Bianca, non abbia richiesto ufficialmente al Presidente Trump l'autorizzazione a installare una base militare italiana nel territorio americano per bilanciare la oramai anacronistica presenza delle basi americane installate nel suolo italiano.
Trump: «Dear Sergio, ma noi ci sappiamo difendere da soli».
Mattarella: «Dear Donald, è per produrre parmigiano con l'uranio impoverito a casa vostra».

domenica 12 maggio 2019

La gallina di Gadda


« In quel punto, come evocata di tenebra, dall’usciolo socchiuso della scaluccia approdante in bottega […], si affacciò, e poi zampettò sul mattonato freddo qua e là con certi suoi chè chè chè chè tra due cumuli di maglie, una torva e a metà spennata gallina, priva di un occhio, e legato alla zampa destra uno spago, tutto nodi e giunte, che non la smetteva più di venir fuora, di venir su: tale, dall’oceano, la sàgola interminata dello scandaglio ove il verricello di poppa la richiami a bordo e tuttavia gala d’una barba la infronzoli, di tratto in tratto: una mucida, una verde alga d’abisso. Dopo aver esperito in qua in là più d’una levata di zampa, con l’aria, ogni volta, di saper bene ove intendeva andare, ma d’esserne impedita dai divieti contrastanti del fato, la zampettante guercia mutò poi parere del tutto. Spiccicò l’ali dal corpo (e parve estrinsecarne le costole per una più lauta inspirazione d’aria), mentre una bizza mal rattenuta le gorgogliava già ner gargarozzo: una catarrosa comminatoria. A strozza invelenita principiò a gorgheggiare in falsetto: starnazzò spiritata in colmo alla montagna di que’ cenci, donde irrorò le cose e le parvenze universe del supremo coccodè, quasi avesse fatto l’ovo lassù. Ma ne svolacchiò giù senza por tempo in mezzo, atterrando sui mattoni con nuovi acuti parossistici, un volo a vela de’ più riusciti, un record: sempre tirandosi dietro lo spago. Parallelamente allo spago e alla infilata dei nodi e dei groppi, un filo di lana grigio le si era appreso a una gamba: e il filo pareva questa volta smagliarsi da reobarbara ciarpa, di sotto al ridipinto ciarpame. Una volta a terra, e dopo un ulteriore co co co co non si capì bene se di corruccio immedicabile o di raggiunta pace, d’amistà, la si piazzò a gambe ferme davanti le scarpe dell’allibito brigadiere, volgendogli il poco bersaglieresco pennacchietto della coda: levò il radicale del medesimo, scoperchiò il boccon del prete in bellezza: diframmò al minimo, a tutta apertura invero, la rosa rosata dello sfinctere, e plof! la fece subito la cacca: in dispregio no, è probabile anzi in onore, data l’etichetta gallinacea, del bravo sottoufficiale, e con la più gran disinvoltura del mondo: un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini come i grumi di solfo colloide delle acque àlbule: e in vetta in vetta uno scaracchietto di calce, allo stato colloidale pure isso, una crema chiara chiara, di latte pastorizzato pallido, come già allora usava. »

Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 1957 (capitolo 8).

Mi capitata raramente di piegarmi in due dalle risa per una lettura. Ancor più raramente mettermi ad applaudire e, subito dopo, a ricopiare quanto ho letto.
E festeggiare la madre: lingua.

mercoledì 10 aprile 2019

I bruci che cosano

Michele Serra ha scritto e pubblicato un nuovo romanzo.
La letteratura italiana avrà piacere di accoglierlo.
Non ho messo il punto interrogativo perché sicuramente il libro avrà un tessuto narrativo in regola per essere classificato e posizionato nello scaffale di letteratura italiana contemporanea.
Io mi ricordo che, quando ero piccolo, mia madre leggeva Liala: chissà dove saranno finiti quei libri; e mi ricordo pure che in uno di essi attaccai i doppioni dei calciatori di serie b per inventarmi una nuova squadra e, per questo, quando lo scoprì, mia madre bestemmiò.
Ho vissuto un'infanzia allevato dal diavolo (mia madre) e dall'acquasanta (mia zia), una che porcoddio e l'altra che madonna santissima vergine e beata. Io però, da bravo figlio di bonadonna, ho imparato persino il rosario, il Salve Regina e l'atto di dolore per pentirsi e dolersi dei peccati. 
Tuttavia, sebbene abbia scritto e scriva più di quanto necessario, non ho mai scritto romanzi.
Al novantanove per cento perché non ne sono capace.
Il resto è pudore.
Perché aggiungere storie inventate alle nostre storie inutili? Che peccato è questo? Pornografia?
Quelle di Serra, lo dico a naso, saranno proiezioni psicologiche esposte da un io narrante in vena di sociologia e moralismi per mascherare e autoassolvere la propria coscienza borghese.
Quanti brani estratti dal libro finiranno nelle novelle antologie di letteratura per le scuole medie?
Una volta mettevano Cassola, Vittorini, Piovene; le poesie di Saba quando andava bene.
Ora ci sono Serra, Piccolo, Mazzucco e Mazzantini, e se si ha fortuna persino la ciliegina della Bignardi.
Comunque io non son qui per giudicare, soltanto per constatare, anche se, mio malgrado, la stessa constatazione comporta un giudizio.
Sono i segni dei tempi: più la storia umana procede, più ci si avvicina all'orizzonte degli eventi e più si definiscono forma, grandezza ed eleganza della nostra fine.


lunedì 25 febbraio 2019

Una provvida stroncatura

Tra le tante, troppe cose che non ho letto, ce n'è una di cui non ero affatto orgoglioso, anzi: me ne vergognavo un po', dato l'ampio consenso  della critica, del pubblico, dei media in generale, che, in modo pressoché unanime, ne lodano l'opera e inseguono le vicissitudini quasi eremitiche e oracolari dell'autore, considerato dalla vulgata un genio e i suoi romanzi un must imprescindibile.

Devo ammetterlo: stavo per cedere, quando, improvvisa come una lavata di viso benefica che schiarisce le idee, è arrivata una provvida stroncatura, che mi ha confortato e offerto - per quel che mi riguarda - una valida conferma a un mio pregiudizio, o presentimento, quello di essere in presenza di un guitto.

- Come sarebbe a dire? Non hai letto niente di Houellebecq?
- A parte qualche paragrafo o giro di frase, no.
- E ti basta una recensione a convincerti che è preferibile non leggerlo?
- Sì. Mi basta poco. Mi avvalgo della facoltà insindacabile di evitare di conoscere nel dettaglio tutto ciò che si presenta alla mia attenzione con un ronzio.
- Suvvia, non fare lo schifiltoso. Al limite, leggerlo potrebbe risultare un ottimo fertilizzante.
- Sei più acuto di Nicola Lagioia.
- [con tono faulkerneriano] Al Salone! Al Salone!

sabato 12 maggio 2018

Salutatemi i Guermantes

Ho un blocco dello scrittore, a quadretti, carta riciclata e copertina rigida, comprato in un supermercato francese, Casino. Mi ricordo che entrai e il personale di sorveglianza, vestito come i militari di stanza in Afghanistan, mi passò un metal detector tra le gambe e la spia si accese, dunque mi perquisirono notando un'insolita erezione. «Poi mi passa, appena entro», mi giustificai. Loro annuirono, capendo che il feticismo delle merci, alla lunga, sgonfia le palle a tutti, sia a coloro che hanno la possibilità di accedere al credito, sia a coloro che invece si limitano ad annusarle strisciando tra gli scaffali o a sognarle distesi la notte sui marciapiedi sopra cartoni delle scatole dei detersivi che con il loro finto profumo di lavanda allontanano, almeno per una nottata, scarafaggi e tarme. 

C'era una gran folla di persone al reparto cancelleria ultra fornito per l'imminente inizio dell'anno scolastico, genitori e figli che riempivano il carrello di materiale vario, i più seguendo una lista riportata sullo schermo dei cellulari. Avevo scelto il momento peggiore, dunque, per comprare un blocco dello scrittore. Distratto dall'avvenenza di molte madri che facevano a gara nel mostrare tatuaggi e abbronzatura - e la quantità di sguardi che riuscivano a raccogliere determinava in cuor loro la bontà del risultato (e io, come molti, quasi tutti, direi, guardavamo discretamente, credendo di non essere visti e invece le guardate sapevano contare gli sguardi anche quelli, e soprattutto quelli, di schiena) - non sapevo decidere quale blocco avrebbe fatto meglio al caso di un blogger che, dopo anni di schermo e di tastiera, voleva ritornare alla manualità da scrivano, per verificare se la calligrafia sarebbe stata ancora in grado di sostenere flusso di coscienza, annotazione diaristica e invenzione narrativa. 

Come detto in esordio, scelsi un blocco di carta riciclata, a quadretti. Aveva un odore strano, simile al Roquefort. Pagai e, appena uscito, mi sedetti su una panchina davanti alle casse e scrissi qualche frase, forse un verso ispirato dalle clavicole di una signora sulle quali avrei volentieri posato il mento.
Il personale della sorveglianza si avvicinò e mi chiese che cosa stessi facendo. «Le seghe», avrei dovuto rispondere e, invece, mi limitai a dire: «Scrivo». «E che cosa sta scrivendo, ce lo può dire?». «Pensieri». «E chi si crede di essere, Pascal?». Proprio vero: ogni attività che non rientra nei canoni dell'epoca corrente risulta sospetta e quindi avversata dalla Sorveglianza generale. «Ogni attività che si svolge dentro questo Centro commerciale deve essere sottoposta a controllo e verifica¹. Voglia quindi farci fotografare quel che ha testé scritto», disse uno dei vigilanti, il diplomatico. «E se mi opponessi?». «Dovremmo sequestrarle il blocco», replicò l'altro vigilante, il nerboruto. «Facciamo così»: strappai la pagina, la accartocciai, ne feci una pallina che lanciai in aria, più in alto che potei. I vigilanti alzarono gli occhi al cielo e io scattai velocemente verso l'uscita gridando: «Salutatemi i Guermantes».

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¹ «Monitorata» tua sorella.

domenica 22 aprile 2018

La circostante letteratura



C’era un libro che aspettavo da anni e finalmente Gianluigi Simonetti l’ha scritto, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Il Mulino.

L’aspettavo perché desideravo che qualcuno, in modo autorevole, sia pure nei limiti della sincronicità, compisse un’analisi critica che avesse il merito di offrire un quadro “clinico” imparziale del corpo letterario italiano, senza dire – e qui sta il pregio – se a esso serva, o meno, una cura.

Sono soltanto al primo capitolo («I nuovi assetti della narrativa italiana»), ma credo – senza tema di sbagliarmi, date anche le premesse di una splendida introduzione – che il libro confermerà un mio pregiudizio di non lettore della letteratura italiana (e non solo italiana) contemporanea. Pregiudizio, che è questo: la narrativa odierna è perlopiù costituita da libri brutti, che non dicono nulla di che, inutili in gran parte, ovvero utili soltanto a chi li pubblica e chi li scrive se riescono a vendere bene, se hanno successo, se diventano film o serie tv. Libri che segneranno l’epoca come una delle più insulse della storia, come è stata insulsa e spregevole anche la politica, nevvero, e la società in generale. Libri che restituiscono, come uno schiaffo, la condizione passiva della letteratura (dell’arte, in generale) faccia al potere: anche quando tentano di denunciarne gli abusi, lo scimmiottano. Libri autocompiaciuti, che non spingono la mente oltre il dato, l’attualità schifa, la menzogna. Libri che non rivelano, anzi coprono di carta igienica la merda prodotta dal mondo circostante e, peggio ancora, non tirano lo sciacquone. Libri a galla, dunque, vaganti tra le onde, nutrienti come plastica per i pellicani.

«Più nessuno verifica per noi ciò che leggiamo». Beh, Simonetti lo ha fatto e a lui va il mio sincero grazie.

lunedì 6 marzo 2017

Facciamo un po' di letteratura

Vittore Carpaccio, Ritratto di dama [con un libro in mano]

«Non gli era mai venuto in mente fino allora di pensare alla letteratura come al miglior giocattolo che si fosse inventato per burlarsi della gente». G.G. Márquez, Cent'anni di solitudine.

La letteratura è un'arma di difesa. Per averla, occorre un porto d'armi. Si potrebbe usarla anche senza, ma, in tal caso, inevitabilmente, è facile sparare parole a cazzo di cane, orinandole ai vari angoli del mondo per marcare inutilmente il territorio di intenzioni.

Chi rilascia il porto d'armi? La necessità dell'epoca. Dato che la letteratura non ha sofferto, come altre opere d'arte, il problema della sua riproducibilità tecnica, se non nella produzione inflazionistica di letteratura che non lo sarà mai (perché, naturalmente, a decidere che cosa è letteratura e cosa no, lo stabilisce il tempo), l'autorità che concede il permesso di possedere l'arma è quella che si richiama alla scuola borgesiana di Pierre Menard, autore del Quijote.

Dunque, mi sono presentato all'esame, e ho scritto:

«Non mi era mai venuto in mente fino a oggi di pensare alla letteratura come al miglior giocattolo che si fosse inventato per burlarmi della gente».

Sono stato bocciato. 
Continuerò comunque a scrivere: a cazzo di cane.

sabato 4 febbraio 2017

Tormenti della parola

Antonio Di Benedetto, L'uomo del silenzio, 1964 (ed. it., BUR 2006)

«È colpa mia. Mi sono lasciato catturare dalla seduzione delle parole: con la loro apparenza di idee sembrano rivelare qualcosa, come se mettessero in guardia sulla natura dei loro strati profondi».


Valentin N. Vološinov (Michail Bachtin), Il linguaggio come pratica sociale, Dedalo Libri, Bari 1980
«Ma di questo parleremo parecchio più in là.»

giovedì 22 dicembre 2016

Di cosa parliamo quando parliamo di letteratura.

Sono infilato dentro una Feltrinelli e c'era tanta gente che faceva di tutto fuorché leggere: mangiare, bere un cappuccino, ascoltare musica, grattarsi un orecchio con la punta di un lapis Ikea ritrovato casualmente in tasca, riscaldarsi, sbadigliare, fare la fila alla cassa, ma neanche un cristo con un libro aperto - e in mezzo a tanta sfiducia nel genere letterario ho preso un Carver a caso e l'ho ingoiato intero come un pellicano.
Una giovane ragazza dai capelli allegri e gli occhi tristi mi ha guardato prima sorpresa poi compiaciuta e mi ha detto: «Eh, meglio codesto che un McChicken». Dato che non si parla con la roba in bocca, non ho risposto, bensì annuito e le ho fatto altresì capire a cenni che, se voleva favorire, ancora qualche copia bella fresca di stampa c'era. Ma ha declinato: «Ancora credo nell'amore, nonostante quello stronzo del mio ragazzo faccia di tutto per non farmici credere». Avrei potuto dirle: «Dagli retta», ma non ho voluto, in fondo la letteratura nasce dalle circostanze, lo sguardo di una donna, per esempio, che ti tiene sospeso tra la terra e il cielo, a mezz'aria, in una condizione in cui è facile presentire l'oltre, ma quale oltre, il qui, ma quale qui, l'ora, eccola, e sia.
È in tale stato di grazia che può accadere di tutto, anche di salire sopra un treno sbagliato dove ti addormenti per digerire quello che hai letto, voglio dire quello che hai mangiato, quello che è entrato a far parte di te con un semplice scorrere dita tra le pagine. Poi quando ti svegli e ti accorgi che sei arrivato nella stazione sbagliata, capisci l'ovvio, che ciò che conta è il viaggio, ossia raccontarsi, anche lasciando i discorsi a mezzo, ogni volta ripresi ripartendo da quel punto nello spazio (una stella?) dove abbiamo lasciato appeso il filo del discorso.