« Il guaio maggiore delle
statistiche sull'occupazione è che tendono a farci considerare gli uomini come se fossero patate. Quando si cerca di tener presente
il fatto istruzione e lo stato psico-fisico del lavoratore si fa un
passo avanti nella direzione giusta, ma un passo ancora troppo
piccolo. Nelle statistiche sull'occupazione un Michelangelo
apparirebbe semplicemente come “scultore: 1”. Se le statistiche
fossero abbastanza progredite l’unità figurerebbe nella categoria
“artigiani (o artisti) con più di 10 anni d’istruzione”. E
tutto finirebbe lì. Le statistiche di cui disponiamo lasciano fuori
l’elemento più importante del fattore lavoro, e cioè l’elemento
umano, il cui significato più profondo non si può – almeno non
siamo ancora riusciti – a misurare in termini quantitativi. Ho
citato il caso di Michelangelo e ho scelto un caso estremo. Ma senza
arrivare a questi limiti è chiaro che una cosa è una massa di
lavoro preparata, diligente, efficiente, capace di organizzazione e
di cooperazione, e tutta un’altra cosa è una massa di lavoro
ignorante, rissosa, disorganizzata e priva di motivazione. Per lavoro
ovviamente non bisogna qui intendere solo gli operai, bensì tutti
coloro che per un verso o per l’altro partecipano all’attività
produttiva. Chi ha avuto modo per esperienza diretta di comparare
società sviluppate e società sottosviluppate, riconoscerà
volentieri che la diversità tra i due tipi di società
sostanzialmente consiste nel
valore del “capitale umano” così nelle classi alte come nelle
classi basse. Il guaio di un Paese sottosviluppato non sta tanto
nella mancanza di capitale o nell’arretratezza delle conoscenze
tecnologiche quanto nella povera qualità del suo fattore umano: un
Paese sottosviluppato ha imprenditori che valgono poco, operai che
valgono meno, professori incompetenti, studenti che studiano poco,
governanti che non sanno governare e cittadini senza senso civico.
Per questo il Paese resta sottosviluppato. La mancanza di capitali e
l’arretratezza tecnologica e amministrativa in certo senso sono più
“conseguenze” che “cause” del fenomeno dell’arretratezza. »
Carlo
M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale,
Il Mulino, Bologna 1990, pag.
119
Nessun commento:
Posta un commento