Quando ti vidi non me lo ricordo l'effetto che mi fece vederti; provo a pensarci, a pensarci, ma più ci penso e più mi sfugge come la tua immagine entrò dentro i miei occhi, come la subirono, e s'imprimé sulla retina e come il cervello ti capovolse in quelle frazioni di secondo decisive che trasformano il caso in una necessità. So che mi tenesti tra le braccia ma io non ricordo affatto come furono le tue braccia in quel momento particolare in cui c'è solo una persona cosciente e l'altra no, che stava lì sospesa senza capire ragioni ed emozioni, muovendo a volte le labbra al riso o gli occhi al pianto e cercando di non perdere il contatto con gli occhi che erano l'unico modo per capire che cosa stava accadendo. Ero vivo, e non lo sapevo. Ero vivo, e perché io ero vivo non lo so nemmeno ora. Non mi fu chiesto nient'altro che essere adattandomi agli sguardi che intorno mi dicevano chi ero, dove fossi, che cosa dovevo o non dovevo fare, come muovere le mani per farti sorridere.
C'era un lago davanti a noi. Era sera. Un piccolo lago artificiale di proprietà privata. «Due parole di merda», dicesti accarezzandomi un ginocchio. Non si poteva fare, solo attendere che il buio vincesse la strenua resistenza del crepuscolo. Passò una donna, sembrava mia sorella se avessi avuto una sorella, e bussò al finestrino dell'auto verde ramarro dove eravamo seduti noi...
[continua forse]
1 commento:
E poi che accadde? Continua, sono troppo curiosa per lasciare. Aspetto il continuo.
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