“ Il problema, solo mio?, è più complicato, complicato da più gradi o
stadi di realtà; e volendo spiegarlo, io miro a qualcosa di assolutamente
reale in cui tutti gli aspetti della realtà che turbinano alla rinfusa lascino
presagire qualcosa di simile a una connessione. Perché cosa si può sapere là
dove una partecipazione è quasi sempre solo una partecipazione
(tele)visiva? Cosa si sa là dove si possiede un sapere a base di internet e
online, privo di qualsiasi sapere effettivo, che può nascere solo
dall'imparare, guardare e imparare? Cosa sa chi al posto di un fatto si trova
davanti unicamente all'immagine dello stesso, o, come nei notiziari
televisivi, a uno stenogramma dell'immagine, o, come nel mondo della rete
informatica, allo stenogramma di uno stenogramma?
Troppo rapidamente, anche in questa
guerra, erano stati stabiliti e fissati sulla carta per la cosiddetta opinione
pubblica mondiale i ruoli dell'aggressore e dell'aggredito, delle pure vittime
e dei soli malvagi.
Quale fronte di guerra offriva la «parte privilegiata»,
riguardo ad ammazzati e torturati, per raccontare e fotografare?
E in anni di resoconti di guerra,
sempre soffrendo realmente anche in seguito, e certo sempre di più,
assunsero manifestamente e docilmente gli atteggiamenti e le espressioni
sofferenti richieste per gli obiettivi e le registrazioni di fotografi e
giornalisti internazionali, istruiti, guidati, diretti da costoro. Chi mi dice che
sbaglio o che sono perfido se nella fotografia del volto di una donna che
piange a dirotto, chiusa dietro le sbarre di un campo di prigionia, non vedo
anche decisamente l'attenersi obbediente alle indicazioni del fotografo
dell'agenzia di stampa internazionale che staziona fuori dalla recinzione, e
persino nel modo in cui la donna si aggrappa alla rete un atteggiamento
suggeritole dal commerciante di immagini? Sì, può darsi che mi sbagli, il
parassita è nel mio occhio (il bambino, in primo piano nella foto, che piange
in braccio a una donna, sua madre?, e nella foto successiva è lontano in un
gruppo, tranquillo, in braccio a un'altra donna, la sua vera madre?): ma
perché non mi sono mai capitate sotto agli occhi - almeno qui, all'«Ovest» -
queste immagini così accuratamente inquadrate, studiatissime e appunto
come esibite di una vittima di guerra serba? Per quale motivo i serbi in
quelle condizioni non sono quasi mai stati mostrati in primissimo piano, e
quasi mai singolarmente, ma quasi sempre come gruppetto, e quasi sempre
sul mezzofondo o in lontananza sullo sfondo, proprio «sul punto di sparire»,
e anche quasi mai, a differenza dei loro compagni di sventura croati o
musulmani, con lo sguardo fisso e dolente verso la macchina fotografica,
ma girato da parte o puntato a terra, come consci delle loro colpe? Come
una stirpe estranea? - O come troppo orgogliosi per mettersi in posa? - O
come troppo tristi per farlo? ”
Peter Handke,
Un viaggio d'inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina
ovvero
Giustizia per la Serbia
Einaudi, Torino 1996
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