Ai telai, alle spole!
La prese di punta e si punse, chiaramente, e giù acqua ossigenata a iosa, ché la schiumina sulla ferita gli dava ebbrezza, come un calice di champagne. Fu così che distolse lo sguardo a beneficio del guardato, dato che lo guardava male, anche se normalmente vestito, come per coglierlo in fallo. E dire che quel tizio non aveva fatto niente e neanche aveva in animo di fare qualcosa: stava lì ad aspettare la corriera per Singapore, voleva passare una nottata caldo umida. Tutto aveva un senso, persino l'insensato. E io scrivo apposta, perché non mi sia rinfacciato di lasciare il non detto non scritto. Tanto per come ragionano le genti dalle menti irretite o per seguire il branco, o per distinguersi dal branco, o per replicare vox populi, o per contraddire vox populi, impediti tutti al silenzio perché tutti a conoscenza di come stanno le cose, nel secondo cassetto dell'armadio, sopra le mutande e i calzini.
Sfido io, ma il gioco non vale, perché in realtà non c'è partita a giocare con sé stessi. Se stessi in bilico, viaggerei spesso a rimorchio, sulle autostrade d'Italia, il famoso paese meraviglioso, tutto golfini a modo e foto di gruppo in ordine spazio, sorridenti, che non mancano né sorci, né denti.
Figuriamoci. Vengo anch'io da una famiglia di filatori (parte materna), che lavoravano al telaio di un famoso lanificio che ora non più. Era del padre del Sartori, il politologo morto or non è molto, che con verve tosconuiorchese bastonava sul doppio turno alla francese le italiche genti. Eppure, la fabbrica, che tanto sudore, ore e rumore ha consumato della pelle, delle palle, delle ovaie e delle orecchie di operai e operaie, quella fabbrica durata un secolo e diventata un museo a cielo deserto, ha smesso di essere, tutto il valore volato via, se non nei quattro soldi dei quattro straccioni di padroni. Il resto sono ossa e marchette per l'Inps. E mi ricordo - forse l'ho scritto, ma non mi ricordo, sicché lo riscrivo uguale - che mi fu raccontato che, durante un'assemblea straordinaria nella quale l'amministratore delegato (il Cipriani) dell'epoca annunciava che macchine e, avessero voluto anche loro, operai e operaie, sarebbero state trasferite in altra sede lontana, il Lamberti, operaio alla cardatura, si rivolse al Cipriani così: «A me, Cipriani, tu mi fai ridere la cappella». E fu chiusa, la cappella, e il Cipriani se ne andò via con il Volvo («Glielo darei io, il Volvo») e il Lamberti, invece, fu messo in cassa integrazione.
Dipende da dove caschi. Dall'intraprendenza. Dalla facciaculaggine. Dal merito... Tiratemi due schiaffi forti, me li merito.
1 commento:
ora i padroni non sai nemmeno chi sono, e si fanno chiamare imprenditori; li dobbiamo ringraziare perché ci danno (o ci prendono?) il lavoro. come son cambiati i tempi, i rapporti sociali al fondo son rimasti però gli stessi: padroni e schiavi
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