Consiglio a tutti i miei amici la lettura di questo libro, la cui edizione italiana è fresca di stampa. Credo che mi capiterà spesso, direttamente o indirettamente, di parlarne. Per il momento, mi limito a estrarne una citazione, presa dagli autori da un certo James Willard Schultz, un diciottenne appartenente a un'importante famiglia di New York che, agli inizi del Novecento, si unì ai Piedi Neri, rimanendo con loro finché non furono deportati, dalle autorità statunitensi, in una riserva.
«Perché questa vita semplice non è potuta continuare? Perché [...] sciami di coloni hanno invaso quella terra meravigliosa e hanno derubato i suoi signori di tutto ciò che rendeva la vita degna di essere vissuta? Non conoscevano preoccupazioni, né fame, né bisogni di alcun tipo. Dalla mia finestra qui, sento il ruggito della grande città, e vedo le folle che si affrettano [...] “legate alla ruota”, e da essa non c'è scampo se non con la morte. E questa è civiltà! Io, per esempio, sostengo che non c'è felicità in essa. Gli indiani delle pianure [...] soli sapevano quali fossero la soddisfazione e la felicità perfette, e ciò, ci viene detto, è il fine principale e lo scopo degli uomini. La civiltà non lo concederà mai, se non a pochissimi, pochissimi»: J. W. Schultz, My life as an Indian, 1935 [trad. it. Ricordi di vita tra gli indiani, Rusconi, 1994]
Di questa citazione m'interessano due passaggi.
Il primo: le «folle... legate alla ruota», che richiama evidentemente il rapporto che noi umani abbiamo con la Tecnica... e i problemi che ne derivano; non tanto dalla ruota, che sicuramente ha permesso di espandere il nostro esserci, quanto da altre invenzioni, soprattutto da certi marchingegni predisposti per comprimere il nostro essere, piuttosto che liberarlo (non dico quale, per non tediare i lettori).
L'altro passaggio da notare con attenzione è l'ultima frase che, nonostante siano trascorsi ottantasette anni, fotografa in modo assai nitido anche la realtà della nostra epoca, della nostra “civiltà”. La civiltà dei pochissimi soddisfatti e felici perché sfruttano la misera e la disperazione altrui.
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