Lei era bella. Io no, ma pazienza. Tuttavia, non è bello ciò che è bello. Così mi recai da lei con un discorso incentrato sul concetto di bellezza intesa come riflesso soggettivo negli occhi di chi guarda, non nella sostanza oggettiva, corporale («un davanti, un didietro» Gadda) di chi è guardato. E infatti, durante il colloquio, lei si dimostrò tranquilla perché mi sforzai (mi smorzai) - sovrumanamente - di guardarla negli occhi e solo negli occhi. Si stupì. Poi, a un certo punto, si grattò un sopracciglio e mi domandò di che colore fossero i suoi occhi. Esitai. Lei sospettò che fossi strabico. Risposi: «Pistacchio». Lei sorrise e m'invitò a sgusciarli. Ristetti e mi attenni a delle doverose precauzioni igieniche, dato che avvertivo di avere, sartrianamente, le mani sporche. «Il bagno è da quella parte, il fazioso». Mi spingeva a prendere partito. E allora lo presi, inutilmente: lei era già partita per il Messico («la faccia triste dell'America» P. Conte) e non seppi a chi cantarle. Restava la luna, algida come sempre, dal cuore di panna (ficcatelo in, dalla parte delle noccioline). A quel punto non seppi che fare. Restai con le mani (non più sporche) in mano. E piansi, anche piuttosto a lungo, diciamo cinque minuti. Raccolsi le lacrime in un flacone e gliele offersi come ricordo di un sentimento che non era stato possibile condividere. Mi ringraziò e mi chiese le indicazioni e la posologia. Ci salutammo con molti propositi, cioè ci dicemmo addio senza dircelo, come fanno le persone perbene che sanno come stanno le cose. E noi sapevamo come stanno le cose, ma non dove stanno le cose, di solito nell'armadio, o nella credenza, luoghi dell'inattendibile.
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