Giorni fa, incontrai un amico avvocato che, dopo i soliti convenevoli, mi ammonì:
«Hai tradito le aspettative».
«Come sarebbe a dire?».
«Sarebbe a dire che le aspettative sono venute nel mio studio per inoltrare istanza di separazione».
«Ma io non sapevo neanche di averle, le aspettative».
«Eh sì - aggiunse, sogghignando - dicono tutti così, per non pagare le conseguenze o gli alimenti».
Rimasi piuttosto basito. E non certo dell'umore di replicare alle ironie dell'amico. Mi congedai velocemente, dicendogli di farmi sapere se dovevo rivolgermi a uno studio legale pure io. Scoppiò a ridere, ma quando vide che io non ridevo per niente, si ricompose come poté e disse: «Ti faccio sapere».
L'indomani mattina mi telefonò e mi chiese - se potevo - di passare da lui nel pomeriggio.
Potevo, dunque, ci passai.
Pioveva, e io mi bagnai (non Alberto). Non ho mai compreso perché non sia fatto divieto assoluto ubicare studi legali lontani dai portici. Ma vabbè.
La segretaria dell'amico avvocato mi diede un asciugacapelli Dyson e io - siccome sono un fan di Elettra Lamborghini - me lo passai sui peli pubici e poi misi una storia su Instagram.
Poi mi fece accomodare nello studio dell'amico avvocato e io mi sedetti davanti alla sua scrivania in attesa che lui finisse un colloquio con un cliente. Nella sedia accanto alla mia c'erano dei libri (non si leggeva il titolo) e un Kindle.
L'amico avvocato entrò, sempre di buon umore. Mi chiese se volevo da bere e io declinai per venire al dunque.
«E veniamo al dunque, dunque».
Attaccai:
«Davvero ho tradito le aspettative e loro se la sono presa a male?».
«Così pare».
«E dove sarebbero le aspettative, adesso? Mi piacerebbe discutere con loro, avere la loro opinione personale nei miei confronti».
«Sono accanto a te».
«E dove? In questa stanza, siamo io e te - e l'arredamento».
«Sono sedute accanto a te».
Guardai nuovamente la sedia con sopra dei libri senza titolo e il Kindle.
«Posso?», chiesi all'amico avvocato se mi fosse consentito prendere in mano gli oggetti.
«Certo, fai pure».
I libri che sfogliai erano fatti di pagine bianche; e il Kindle che accesi era senza contenuti.
«E dunque? Sarebbero queste le ‘mie’ aspettative?»
«Così pare».
«Ti giuro che non ci sto capendo un cazzo».
«Le tue aspettative - mi hanno detto - vogliono separarsi da te perché non le hai rispettate: non hai scritto né pubblicato o autopubblicato alcun libro e loro sono deluse: sostengono che glielo avevi promesso».
«Eh? Io avrei fatto loro questa promessa? Ma quando mai! Forse nel delirio di uno studente che cercò di far colpo con qualche collega universitaria alla domanda su quello che gli sarebbe piaciuto fare da grande. Comunque guarda, io sono tranquillo: promesse a parte (anche se dubito di averne fatte), non ero vincolato alle ‘mie’ aspettative davanti a un pubblico ufficiale, sicché posso capire la loro delusione, ma insomma: le avevo avvertite che non ero molto affidabile, mica avranno creduto davvero che... Lo so bene: si sono stufate di tanto attendismo, di tante belle parole per garantire al mio essere una dimensione ontologica degna di essere ammirata dagli altri. In fondo, quando si è più giovani e stupidi, si è anche meno preveggenti: si crede, a torto, che raggiungere una posizione di rilievo in un settore, quale che sia, significhi appunto realizzare delle aspettative.
«Le mie clienti ti accusano soprattutto che, nel corso dell'ultimo decennio e più, ti saresti troppo attardato e blandito con la scrittura bloggheristica».
«Ah, sì? Forse in questo hanno ragione. Presumibilmente era questa la mia sola velleità, la mia sola aspettativa: essere qui, in questo luogo dell'immediatezza, del presente che cammina, svincolato da ogni progettualità che subisca i torti della mediazione, le cure editoriali di salcazzo e il plauso o il rifiuto di redazioni prezzolate, alle quali preferisco le patate in insalata con l'olio buono e il parmigian».
«Sembra un'ammissione di colpa. Rinunci loro, dunque? Le svincoli dal loro mandato di pungolatrici ontologiche?».
«Sì. Tanto mica erano retribuite».
8 commenti:
il cancro del mondo materiale è la sovrapopolazione. e il mondo delle aspettative sta anche peggio.
effettivamente si figlia abbastanza come specie, anzi: come esercito di riserva.
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L’esperienza è un fatto al quale non possiamo assolutamente sottrarci e a cui sopratutto dobbiamo sottostare, dice Oehler. D’altra parte è però ugualmente un fatto che noi agiamo sempre in un modo preciso ma anche molto più del necessario condizionati dal fatto che quello che io faccio (e riconosco) nel dire: questi bambini che vediamo qui nella Klosterneuburgerstrasse sono stati fatti perché l’intelletto è venuto meno, non corrisponde a ciò che è. Ma io, anche se so che questo non è vero, perché è falso, dico: questi bambini che vediamo qui nella Klosterneuburgerstrasse sono stati fatti perché l’intelletto è venuto meno, anche se sappiamo che i concetti usati nella frase sono falsi e di conseguenza anche le parole usate nella frase sono false, e dunque, come sappiamo, tutto in questa frase è falso. Se però ci atteniamo alla nostra esperienza, che è una linea direttrice al di sopra di tutto, non possiamo parlare proprio di nulla, e allora non esistiamo proprio più, dice Oehler. E quindi io affermo senz’altro che questi bambini che vediamo qui nella Klostrerneuburgerstrasse sono stati fatti perché l’intelletto è venuto meno. E solo perché io non mi attengo all’esperienza è possibile tutto. Solo così è possibile dire una frase come: la gente cammina semplicemente per strada e fa un figlio, oppure la frase: la gente ha fatto un figlio perché il suo intelletto è venuto meno. Non si chiede nulla, questa gente che fa un figlio, è una frase completamente vera e al tempo stesso anche completamente falsa, dice Oehler, come ogni frase. Bisogna sapere, dice Oehler, che tutte le frasi che vengono dette e che vengono pensate e in generale che esistono, sono al tempo stesso vere e al tempo stesso false, se si tratta di frasi vere. Adesso interrompe la conversazione e dice: in effetti questa gente non si chiede nulla quando fa un figlio, anche se sa che fare un figlio, e in particolare fare un figlio proprio, significa fare un’infelicità e quindi fare un figlio, e quindi fare un figlio proprio, non è altro che un’infamia. E una volta fatto il figlio, dice Oehler, quelli che l’hanno fatto si fanno pagare dallo Stato per il figlio che hanno fatto loro stessi di testa propria. Lo Stato deve accollarsi questi milioni e milioni di figli fatti di testa propria, figli, come sappiamo, completamente superflui, che non hanno portato altro se non una nuova infelicità, per milioni e milioni di volte. Ma l’isteria della storia, dice Oehler, tralascia la circostanza che fare un figlio significa sempre fare qualcosa di infelice e qualcosa di superfluo. A quelli che fanno figli non si può risparmiare il rimprovero di aver fatto i loro figli del tutto sconsideratamente e nel più comune e volgare dei modi, sebbene costoro, come sappiamo, non siano sconsiderati. Nessuna peggiore catastrofe, dice Oehler, di tutti questi figli fatti sconsideratamente, per i quali a dover pagare è lo Stato, preso in giro con questi figli. Chi fa un figlio, dice Oehler, deve essere punito con il massimo della pena, e non ricevere sovvenzioni. Null’altro se non questo entusiasmo della sovvenzione da parte dello Stato, entusiasmo cosiddetto sociale, completamente falso, che, come sappiamo, non è affatto sociale e di cui si deve dire che è soltanto l’anacronismo più disgustoso al mondo, è colpevole del fatto che il crimine di fare un figlio e di mettere al mondo un figlio – cosa che definisco il crimine più grave in assoluto – dice Oehler, che questo crimine, dice Oehler, non sia punito, ma riceva sovvenzioni. Lo Stato avrebbe la responsabilità di punire la gente che fa figli, dice Oehler adesso, ma no, sovvenziona questo crimine. E che tutti i figli che si fanno siano fatti in modo sconsiderato, dice Oehler, è una realtà. Con la testa non si fanno figli, dice Oehler, e quello che si fa senza testa, e in particolare quello che si fa in modo sconsiderato, va punito.
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da Camminare di Thomas Bernhard
gentile Bonste, grazie della citazione.
Quando avevo vent'anni, non avevo figli e leggevo Bernhard, la pensavo quasi esattamente come lui, sebbene fossi un figlio non del tutto infelice e pensassi che con con me si poteva anche chiudere la questione dell'umanità.
Poi - nonostante ne ammiri ancora lo stile e lo legga volentierissimo - ho smesso di leggere Bernhard e Ceronetti e Nietzsche e tutta la brodaglia reazionaria adelphiana, ho mandato affanculo il conservatorismo da misantropi, ho letto (e non ho finito di leggere) Marx e ho capito qualche cosa in più, anche sul tema della sovrappopolazione, giacché «una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e gli animali nella misura in cui l'uomo non interviene portandovi la storia» Il Capitale, cap. 23
Mamma mia che intellettualoni, ma fate sul serio?
Non credo che Bernhard abbia mai considerato il tema della sovrappopolazione, sono stato spesso un navigatore nel pianeta e considero quello della sovrappopolazione una masturbazione. Nel 1975 anche il sottoscritto aveva venti anni e Bernhard quarantaquattro, purtroppo all'epoca avevo ben altro a cui far fronte, sempre e solo un operaio, spesso disoccupato, mai in disoccupazione, sempre in incostante formazione, la mia come quella di Bernhard è stata una provocazione. Troppo tardi, almeno per me, a cui non spetta alcuna pensione, studiare Marx, ma leggo con piacere tutti voi, non molti, che ne scrivete, sposando spesso le vostre tesi e riflessioni, ammirandone la prosa ed i colori del pensiero scritto.
Grazie Bonste
Serissimi fummo 😜
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