Internazionale di questa settimana pubblica meritevolmente la traduzione di una inchiesta sul campo dell'ottimo antropologo Scott Atran e della sua équipe di ricerca dal titolo Rivoluzione e Stato Islamico (qui nella versione originale).
Sicuramente, tale saggio offre una prospettiva diversa per capire il fenomeno, per circoscriverlo e non ridurlo - come fanno essenzialmente la maggior parte dei canali informativi e dei commentatori - a mero terrorismo. Anche se non si scopre niente di inedito, quello che poteva essere detto a mezzavoce trova conferma dalla raccolta e dall'analisi dei dati rinvenuti. E cioè:
«Con le nostre pallottole, le nostre bombe e la nostra arroganza non solo non stiamo riuscendo a impedire che l'estremismo islamico si diffonda, ma sembra quasi che lo stiamo aiutando».
E ancora:
«Mentre in occidente molti liquidano l'estremismo islamico definendolo semplicemente nichilistico, dalla nostra ricerca è emerso qualcosa di molto più inquietante: l'irresistibile fascino di una missione che mira a cambiare e salvare il mondo [...] Nonostante la nostra incessante propaganda che accusa l'IS di essere violento e crudele - e certamente lo è - ci rifiutiamo di riconoscere il suo vero fascino, e ancora meno l'idea che possa essere una fonte di gioia per i suoi militanti. I volontari, soprattutto giovani, che si offrono di combattere per il movimento fino alla morte provano una gioia che nasce dal sentirsi uniti a persone come loro nella lotta per una causa gloriosa, e al tempo stesso la gioia che nasce dallo sfogo della rabbia e dal piacere della vendetta».
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Ciò che del saggio convince meno è il richiamo frequente ad analogie storiche, a mio avviso talvolta anche poco pertinenti.
Ma soprattutto - visto anche il richiamo frequente (e pertinente) alle aspirazioni politiche dell'azione «rivoluzionaria» dei combattenti sunniti per l'edificazione di un Califfato, che secondo Atran costituisce il movente e la forza d'attrazione di così tanti giovani privi d'ideali e affamati di senso - manca in questo studio non dico un'analoga inchiesta-ricerca sullo stato dell'arte in Occidente, piuttosto un accenno sulla natura della perdurante crisi che lo investe, come se il modello di società occidentale, dominata un certo tipo di rapporti di produzione e quindi di classe, fosse un dato naturale e scontato, irreversibile, e non costituisse di per sé un problema, anzi: il problema a partire dal quale scaturiscono tutte le crisi presenti e passate. Infatti, tutto il puttanaio occorso in vicino e medio Oriente dalla disfatta dell'Impero Ottomano a oggi, non è forse una conseguenza di un modo tutto occidentale di pensare la politica ed esportare i propri valori?
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Da quando il capitale si è dispiegato in ogni angolo del pianeta con la globalizzazione e l'apporto informatico-digitale, la classe dominante d'Occidente ha trovato solo un modo per tenere in vita il gioco sporco della valorizzazione: sfruttare al massimo il lavoro umano, aumentare l'esclusione e la precarietà, alimentare il conflitto tra poveri.
Questi rantoli di restaurazione tribale 2.0 che suggestionano i malati di mente e di senso che si attaccano al cazzo di una religione fanatica e aggressiva finanziata dal petrolio saudita e delle altre nazioni del Golfo (e quindi, indirettamente, anche da noi occidentali che con gli arabi facciamo affari), sono certamente più tollerati e sicuramente preferiti dalle nostre lungimiranti élite rispetto a qualsiasi tipo di critica reale e concreta dei rapporti di produzione e di classe.
Cosa vuol dire questo: che per i figli di puttana che gradiscono il giochino D-M-D¹ (e dentro ci sono anche tutti quei bei fighi democratici della Silicon Valley) è altamente preferibile un Califfato universale alla benché minima messa in causa del sistema di sfruttamento del lavoro umano (unica fonte di valore, checché ne dica la robotica).
Di queste cose l'antropologia, scienza borghese, ancora non si occupa.
E quando Scott Atran scrive:
«E dove sono gli intellettuali della nostra generazione o della prossima che potrebbero influire sui principi morali, le motivazioni e le azioni della società per trovare una soluzione giusta e ragionevole che ci porti fuori da questo pantano? Tra gli accademici, ben pochi sono disposti a entrare in conflitto con il potere, quindi si rendono irrilevanti e non si assumono nessuna responsabilità morale cedendo completamente il campo a quelli che criticano»
verrebbe da domandargli: e tu dove sei, invece?
Già, sei a fare questi discorsi di conclusione che riportano al punto dal quale sei partito:
«Le civiltà sorgono e cadono in base alla vitalità dei loro ideali culturali, non solo alla quantità di beni materiali che possiedono. La storia dimostra che quasi tutte le società hanno valori sacri per i quali i popoli sono disposti a combattere e perfino a morire per non scendere a compromessi. Dalla nostra ricerca è emerso che è così per molti di quelli che si uniscono all'IS, e per molti curdi che gli si oppongono sui vari fronti. Ma finora non abbiamo riscontrato la stessa disponibilità da parte della maggior parte dei giovani che abbiamo scelto come campione nelle democrazie occidentali. Dopo la sconfitta del fascismo e del comunismo si sono rifugiati nella ricerca del benessere e della sicurezza? Ed è sufficiente questo per garantire la sopravvivenza, per non dire il trionfo, dei valori che diamo per scontati e sui quali siamo convinti che si basi il nostro mondo? Più che il jihadismo violento, forse è questo il problema più importante delle società aperte di oggi.».
Ecco, caro Scott, ti ho trovato il prossimo argomento di ricerca: quale sarebbe il problema più importante delle società aperte oggi? Non avere dei valori sacri di scorta per i quali combattere e perfino morire? Oppure il problema antropologico per eccellenza è un altro, ancora poco nominabile nei vostri dipartimenti?
Buon lavoro.
2 commenti:
meno male che robespierre sapeva l'inglese, perché io di francese non capisco una parola...
Sei una adorabile fava.
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