La crescente ansia delle limitazioni della libertà non si esaurisce; per ora, sebbene un po' attenuata dal callo veloce delle abitudini, resta stabile, con tendenza al rialzo, soprattutto quando qualcuno avvisa che la Fesa 2 (di tacchino) non sarà una sagra della primavera, no. Piuttosto, in una fase ancora in cui la sovranità appartiene ai virologi, soprattutto a quelli che hanno più audience in tv, sarà una fase in cui l'esercizio del potere probabilmente sperimenterà nuove e maggiormente esecrabili forme di controllo che saranno introdotte per stato di necessità, mediante il tramite di decreti governativi d'urgenza.
Io non mi fido, e peno. Si sono spinti troppo avanti e sono arrivati a un punto in cui, come i demoni di Gerasa, è più facile il precipizio anziché la marcia indietro. Ma il problema è che non saranno i demoni a buttarsi di sotto, a cominciare da tutti coloro che hanno trasformato una emergenza in una tragedia, a tutti coloro che hanno diffuso e diffondono quotidiani bollettini di guerra e che spargono panico piuttosto che concio, per sfamare il popolo con verità scientifiche indiscutibili.
Se poi esagero e, a fine maggio, potremo liberamente déjeuner sur l'herbe, tanto meglio: verrò qui a dire mea culpa, mea culpa, eccetera. Ma per il momento faccio parte di una minoranza di preoccupati per qualcosa che la maggioranza non percepisce (e quindi non teme). E non sono neanche tanto le app di mappature e controllo che mi allarmano, quanto che, nei più, è già stato inoculato via etere o via social, il virus del controllo, del poliziotto dentro, del «guarda quello lì senza mascherina, come si permette?», del «e chi sarebbe quello che è venuto in paese oggi, da dove viene, dove andrà?», del «lei non rispetta la distanza sociale: guardi chiamo la volante», del «chi sono quei due che respirano qui?».
Sarà dura riguadagnare un minimo di decenza e di urbanità. Sarà difficile almeno finché non saremo liberi di starnutire con qualcuno accanto che ti dice “salute!” e non crepa.
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