«Qualcosa deve essere accaduto, qui tra noi, anni fa. Ciò che io avverto come mutamento sembra essere soprattutto un improvviso salto di qualità - non in alto -, una caduta di convenzioni e memoria delle convenzioni; un improvviso passaggio dalla cultura di convenzioni e memoria a cultura di fisicità e di orrore della memoria. Di colpo, come da una falla, la vita senza aggettivi, la vita come pura esaltazione di momenti fisici e dittatura della fisicità assoluta, è entrata nella vita delle università, di ogni tipo di scuola, ha allagato la stampa. Il momento - della fisicità - è tutto. La parola viene rimandata al grido. Chiunque dica o scriva riferendosi a qualcosa che era prima - una legge, per esempio, una inclinazione alla pietà - non è udito. La sua voce si perde nel fragore generale. La grammatica non c'è più. La sintassi è casuale. Il vocabolario è stato invaso e distrutto. Da tutte le finestre e le porte del millenario edificio si affacciano i volti distorti e ottusi della beffa, del turpiloquio.
La degradazione è la dea del momento. Si portano fiori agli altari della degradazione, ma viene chiamata dissacrazione, che è cosa più lieve. Tutto è dissacrato, o sta per esserlo. Il patrimonio ultramillenario di modi, di intese, simboli, atti-simbolo è passato al macero. Chi vuol dire qualcosa, non spera più di essere capito. Se c'è bisogno di aiuto, l'aiuto è impossibile: ciò perché i segnali sono cambiati. Quali sono? La nostra vita non ha più segnali che siano riconoscibili un istante dopo, o a un metro di distanza. Il privato - come ora si dice - è il morto, a meno che non sia sacralizzato dal denaro. Il denaro, o una personale giustizia, resta il valore che non cade, che tutti riconoscono. Tutto questo, prima, [alcuni] anni fa, non era. Da vari anni, è la nostra vita, il nostro baratro quotidiano; ed appare ineliminabile. Ed è questa vita, così deturpata, questo quotidiano maligno e triste, che io stento a riconoscere come il mio paese e la vita che si prospettava. Dico che la vita di questo paese non si prospettava così; non aveva in programma di farsi inconoscibile. L'estraneità a noi stessi non era il nostro scopo. Ciascuno sperava di restare se stesso. Ora non lo è più nessuno. Ogni giorno si leva più strano. Quando stringiamo la mano a un amico che abbiamo salutato appena ieri sera, non siamo sicuri che in queste poche ore non sia diventato un altro. E perché c'è una invasione, quaggiù, da noi: non certo persone o soldati o autorità di altri Stati. Ma un'aria che non è più nostra. Il Mediterraneo non è più azzurro. Montagne e territori che credevamo lontanissimi ci hanno raggiunto. E crediamo siano effetto di nebbia. E forse lo sono. Ciò non toglie che non ci riconosciamo più, che non possiamo più intenderci, che siamo tristi.»
Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997
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