«Rassegnatevi alla morte. E la morte e,
insieme, la vita, vi saranno più dolci. Con la vita, ragionate così:
s'io ti perdo, perdo una cosa che soltanto gli sciocchi tengono a
serbare. Tu non sei che un soffio asservito a ogni influenza
dell'aria che affligge a tutte l'ore la casa dove tu dimori. Sei
soltanto lo zimbello della morte, dal momento che tutti i tuoi sforzi
son tesi a fuggirla mentre la tua corsa verso di lei mai non
s'arresta. Tu non sei nobile, ché tutte le comodità da te generate
sono nutrite dalla bassezza. E certo non sei coraggiosa perché temi
la lingua forcuta, tenera e insinuante d'un povero serpe. Il migliore
riposo, per te, è il sonno, e questo tu lo provochi spesso. E non
pertanto hai un eccessivo timore della morte, la quale è nulla più
che sonno. E non sei te stessa, perché esisti in virtù di molte
migliaia di granelli originati dalla polvere. Non sei felice, perché
quel che non hai ti sforzi invano d'avere, e quel che già hai
dimentichi di averlo. Non sei mai eguale a te stessa, perché la tua
disposizione varia in modo strano a seconda della luna. Se tu sei
ricca, sei povera, poiché simile a un asino la cui groppa s'incurva
sotto il peso di lingotti d'oro, porti le tue pesanti ricchezze per
lo spazio di un solo viaggio, e a scaricartele di dosso vien sempre
infine la morte. Amici non ne hai, dal momento che le tue stesse
viscere, che pure riconoscono in te chi le ha create, mera effusione
come sono dei tuoi propri lombi, maledicono la gotta, la serpigine e
il catarro perché non ti finiscono prima. Non hai né giovinezza né
vecchiaia ma soltanto una specie di sonno pomeridiano nel quale tu
sogni d'entrambe. Perché la tua beata giovinezza invecchia presto e
méndica la carità che la vecchiaia tremante deve pur reclamare. E
quando tu sei vecchia e ricca, non hai più né calore, né passioni,
né membra sane, né bellezza alcuna, tale che le tue ricchezze
possano recarti un qualche piacere. Che dunque ti resta che possa
ancora chiamarsi “vita”? E in questa vita si annidano migliaia di
morti. Eppure temiamo la morte che livella tutti questi scompensi!»
William Shakespare, Misura per
misura, (1603), traduzione di
Gabriele Baldini, Rizzoli, Milano 1961
A parlare qui è il Duca Vincentio travestito da frate a Claudio, un nobile condannato a morte per aver messo incinta la fidanzata. È chiaro che a Claudio girino i coglioni e che il Duca-Frate si affidi a una raffinata arte retorica per lenire tale giramento.
Ma quanto il rapporto tra vita e morte, fuor di misura per misura, è veramente quella roba che Shakespeare descrive sì mirabilmente? Certo la morte è una livella: ricchi e poveri ci passano, i poveri prima, foss'anche soltanto da un punto di vista numerico. Il problema, semmai, è se ancora oggi possiamo accettare di consolarci, come fa Shakespeare, del fatto che anche i ricchi muoiono. Anche questo qui, per esempio, con le sue scarpette azzurre, un giorno morirà.
Ora, Pinault è un billionario raffinato, padrone tra l'altro di Palazzo Grassi a Venezia (da cui foto), che si trastulla a fare il mecenate d'arte contemporanea, le più volte del cazzo: d'altronde, oggi, gli artisti per farsi scucire i soldi dal capitale, più che essere bravi, devono saper essere dei grandi intraprenditori per il culo.
Ma, per tornare a Shakespeare, si può dire di Pinault che la sua vita se «è ricca, [è per questo] povera, poiché simile a un asino la cui groppa s'incurva sotto il peso di lingotti d'oro, port[a] le [sue] pesanti ricchezze per lo spazio di un solo viaggio, e a [scaricargliele] di dosso vien sempre infine la morte»? Indico Pinault, ma potrei citare altri cento, mille, decine di migliaia forse (ma non di più, no, non di più) le cui ricchezze sono tali da sconfinare nell'assurdo. Vale a dire: nel presente periodo storico, quanto è umanamente tollerabile che esistano degli uomini talmente ricchi che, al confronto, gli aristocratici del tempo di Shakespeare erano degli straccioni - e questo persistendo sul pianeta la fame, la miseria, la depressione economica causata dalla disoccupazione, lo sfruttamento, pensioni da fame, eccetera?
Finché la nostra mente accetterà questa abissale differenza tra coloro che sono veramente ricchi e coloro che veramente no, quanto potremo miseramente consolarci con le (ripeto, mirabili) parole di Shakespeare - il quale, almeno, non si perita di riservare pene oltremondane ai possessori di cotanta ricchezza?
Essere ricchi a dismisura è la più assoluta forma di parassitismo dell'umanità: finché non ci convinciamo di questo, applaudiamo il ricco e i suoi zelanti servi, compresi i suoi buffoni di corte (come Sting, per esempio: bisogna ricordarglielo al cantante inglese milionario che è stato a cantare per un magnate russo anch'egli ultra milionario). La concentrazione della ricchezza in poche mani è il vero inquinamento globale che ammorba l'aria ben più dell'effetto serra.
Per questo, ritengo che uno dei prodromi di una possibile (e plausibile) rivoluzione, passi soprattutto attraverso uno scotimento delle coscienze: vedo un ricco passare su un tappeto rosso? Oddio il vomito. Vedo l'ennesimo inutile festival del cazzo e della fica di Venezia? Un bel clistere e via. Tappeti marroni, altro che rossi.
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