domenica 11 maggio 2014

Quello che conta davvero



Dall'intervista di Federico Rampini ad Amartya Sen su la Repubblica di oggi
«Quello che conta davvero è il benessere delle persone».
Quali? Quante?

Quando uno è stato insignito del premio Nobel, in questo caso per l'economia, può andare tranquillo: finché campa, sarà per tutti un punto di riferimento, e i giornalisti lo cercheranno per mare e per terra per strappargli due buone parole sul destino (incrociato) dell'umanità.
E il premio Nobel parlerà, dirà cose sagge e giuste, per esempio:
«I più grandi pensatori dell'economia ci hanno insegnato a ragionare in modo diverso».
Vai - mi sono detto - ci siamo, verrà citato finalmente chi mi ha insegnato a ragionare in modo diverso.

Adam Smith... David Ricardo... (qui c'è un vuoto, uno strano incolmabile vuoto)... John Maynard Keynes.
Perché? Perché è così intollerabilmente escluso l'unico che, potentemente, ha operato l'unica vera e propria Critica dell'economia politica?
Perché è l'unico che ha rifiuto di rattoppare il sistema, di rammendarlo a uso e costume della classe dominante, dei cosiddetti - anche da Sen, che li nomina senza dire perché lo sono - «ricchi, i ceti più benestanti».

Già: esistono, vivaddio, i ricchi (sempre più ricchi). Ed esistono, abbassoddio, i poveri (sempre più poveri). La forbice si estremizza, come tutti sappiamo. Perché ciò accade? Silenzio di Sen. È tutta una questione di indicatori della felicità.

Dice Sen che uno degli indici dello sviluppo umano è misurato dal grado di istruzione della popolazione. Ma l'istruzione a che cosa? 

Senza considerare le madrasse e altre istituzioni di paranoia religiosa di vario tipo, bensì le varie scuole d'eccellenza sparse nel mondo, pensiamoci bene: a cosa mira l'istruzione? A riprodurre l'esistente. E con l'esistente s'intende i rapporti di classe esistenti, tra chi domina e chi è dominato, tra i ceti più benestanti e i ceti più poveri (di cui uno su mille ce la fa, eccetera).

In particolare, l'istruzione provvede a creare particolari funzionari del sistema: politici, guardiani, tecnici di vario tipo, ma soprattutto abili contabili,  i quali - come scrive Luciano Gallino in un editoriale pubblicato sempre da Repubblica oggi, dal titolo Il danno del denaro creato dalle banche - sono capaci di creare denaro dal nulla - «perché lo Stato glielo consente [...] con pochi tocchi sulla tastiera».
E giù mutui senza copertura, e giù derivati per coprirli, eccetera.

Nondimeno, critica anche a Gallino, nel senso: quando è uno Stato a creare denaro dal nulla (come fanno gli USA da molti decenni oramai), allora è cosa buona e giusta? Sulla base di che cosa uno stato può permettersi di creare denaro dal nulla?

Ma mi fermo, che i problemi mi si allargano a macchia d'inchiostro e non sono in grado di contenerli tutti nella pagina bianca di questo post. Rischio di fare confusione. Quindi stop. Conto di riprenderli.
Chiudo con piccolo estratto dai Grundrisse, pagine a cavallo tra il Quaderno I e il Quaderno II de Il capitolo del denaro (pag. 160-161 edizione Einaudi)
Il denaro «rappresenta l’esistenza celeste delle merci, mentre queste rappresentano la sua esistenza terrena. Ciascuna forma della ricchezza naturale, prima che questa sia tramutata mediante il valore di scambio, suppone una relazione sostanziale dell’individuo con l’oggetto, al punto che l’individuo, per uno dei suoi aspetti, appare esso stesso materializzato nella cosa, e nello stesso tempo il suo possesso della cosa appare come un determinato sviluppo della sua individualità; la ricchezza di pecore [rivela] lo sviluppo dell’individuo come pastore, la ricchezza di grano il suo sviluppo come contadino ecc. Il denaro al contrario, in quanto individuo della ricchezza generale, in quanto autonomo risultato della circolazione e puro rappresentante dell’universale, come risultato puramente sociale, non suppone assolutamente alcuna relazione individuale col suo possessore; il suo possesso non è lo sviluppo di uno qualsiasi dei lati essenziali della sua individualità, ma è piuttosto possesso di ciò che è privo di individualità, giacché questo [rapporto] sociale esiste nel contempo come un oggetto sensibile, esterno, di cui ci si può impossessare meccanicamente o che può anche andare perduto. La sua relazione all’individuo si presenta dunque come una relazione puramente accidentale; laddove questa relazione ad una cosa niente affatto connessa con la sua individualità gli conferisce nello stesso tempo, per il carattere di questa cosa, il dominio assoluto sulla società, su tutto il mondo dei godimenti, dei lavori ecc. come se per esempio il ritrovamento di una pietra mi procurasse, del tutto indipendentemente dalla mia individualità, il possesso di tutte le scienze. Il possesso del denaro mi pone rispetto alla ricchezza (sociale) nell’identico rapporto in cui mi porrebbe la pietra filosofale rispetto alle scienze.»

1 commento:

Olympe de Gouges ha detto...

perché la loro critica è sempre laterale e non va mai alla radice delle cose? perché è una (comoda) posizione di classe. sono come i preti con la religione cattolica. a proposito di keynes basterebbe obiettare: quando teorizzava sulla domanda aggreata, sulla spesa pubblica di sostegno, il debito pubblico e la crisi fiscale degli stati non era quella di oggi. è PROPRIO il keynesismo che ha aggravato la situazione. la questione è in origine, sta nella contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. tu lo sai bene, è lo sanno anche loro, ma FINGONO di parlare d'altro, altrimenti diventano dei paria, degli emarginati, non gli danno certamente il Nobel. dunque hanno un interesse di classe e personale nelle posizioni che sostengono. ciao