Nel
suo The Death of Tragedy (1961,
1980), Morte della tragedia (Garzanti,
Milano 1992, pag. 271-273, traduzione di Giuliana Scudder), George
Steiner scrive:
«Non
possiamo esser certi che esista nel linguaggio o nelle forme
artistiche una legge per la conservazione dell'energia. Anzi è
possibile dimostrare che le riserve del sentimento si possono
esaurire e che particolari tipi di consapevolezza intellettuale o
psicologica possono incrinarsi o svuotarsi. Le arterie dello spirito
tendono a indurirsi come quelle del corpo […] La storia dell'Europa
moderna – la deportazione, l'assassinio o la morte in guerra di più
di settanta milioni di uomini, donne e bambini tra il 1914 e il 1947
– indica chiaramente che i riflessi attraverso i quali una civiltà
modifica le sue abitudini per sopravvivere a un pericolo mortale non
sono più così pronti o realistici come un tempo.
Nel
linguaggio, questo intorpidimento si scorge, a mio parere,
chiaramente. Molte abitudini linguistiche della nostra cultura non
sono più reazioni spontanee o creative alla realtà, ma gesti
stilizzati, che l'intelletto sa ancora eseguire efficacemente, ma da
cui trae intuizioni e sensazioni sempre più povere. Le nostre parole
sembrano stanche e consunte. Hanno perduto l'innocenza originale o il
potere di rivelazione […] E le parole, affaticate, non sembrano più
disposte ad assumersi il peso di un nuovo significato e di una
polivalenza che Dante, Montaigne e Shakespeare attribuivano loro. Noi
arricchiamo il nostro vocabolario tecnologico mettendo insieme
rimasugli usati, come si fa per i sottoprodotti del metallo. Non
fondiamo più il materiale grezzo del linguaggio in un nuovo lucido
prodotto, come fecero i compilatori della Bibbia di Re Giacomo. La
curva dell'invenzione è in discesa. Si paragoni il grigio gergo
dell'economista contemporaneo allo stile di Montesquieu. Si accosti
la prosa da contabile dello storico contemporaneo a quella di Gibbon,
Macaulay o Michelet. Quando lo studioso moderno cita un testo
classico, la citazione sembra un marchio a fuoco sulla sua pagina
sciatta. Sociologi, esperti delle comunicazioni di massa,
sceneggiatori di soap-operas,
scrittori di discorsi politici e insegnanti di “scrittura creativa”
sono i becchini della parola. Ma le lingue si lasciano seppellire
soltanto quando qualcosa dentro di loro è veramente morto.
La
politica disumana del nostro tempo, inoltre, ha avvilito e abbrutito
il linguaggio al di là di ogni precedente. Le parole sono state
adoperate per giustificare frodi politiche, massicci travisamenti
della storia e brutalità degli stati totalitari. È probabile che
qualcosa della falsità e della crudeltà si sia infiltrata nella
loro essenza. Poiché sono state impiegate per fini tanto vili, le
parole non emanano più la pienezza del loro significato. E poiché
ci assalgono in una moltitudine numerosa e stridente, non le
ascoltiamo più con attenzione. Ogni giorno assimilano orrori a
sazietà – attraverso il giornale, la televisione o la radio
[internet]
– e così diventiamo insensibili a nuovi oltraggi. Questa
insensibilità ha conseguenze decisive sulle possibilità dello stile
tragico.»
A
noi la tragedia ci fa una
pippa. Quer cecato d'Edipo
fosse qui, come minimo, prenderebbe una bastonata sul groppone, così
capirebbe finalmente che risolvere gli enigmi della Sfinge non serve
a un cazzo. Quattro, due,
tre: quante che siano le zampe, servono tutte per finire in posizione
orizzontale. Fosse una missionaria eterna potremmo anche essere
contenti, però uno sopra e uno sotto a turno, sennò ci si
indolisce.
La
tragedia è morta, la commedia è in sala di rianimazione, quel che
resta è uno spettacolo osceno, nel senso carmelobeniano di fuori
della scena, spettacolo continuo di umani che si prendono a brani senz'altra mediazione che
quella fottuta del denaro, unico Dio rimasto da pregare per accedere al diritto d'esistenza.
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1 commento:
bel pezzo quello di S.
non ci fossi tu a leggere e a scovare per noi ...
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