Andy Warhol, Sunset, 1972 |
Quello che dico non ha importanza, non è attinente, non ripercorre passi di una storia, non è storia, neanche ricordo, o vissuto di second'ordine. È un dire privo di sostanza, buttato là nel mucchio delle cose dette, scartate nell'indifferenziato e lasciate, immarcescibili, nella discarica di parole in soprannumero.
Sono troppe le parole che vanno in giro per il mondo a cercare di farsi valere, a pretendere, a consigliare, a giudicare, tanto che ogni consiglio, ogni giudizio, appena detti, diventano vuoto a perdere, non riciclabili, giacché niente vale meno del te l'avevo detto sia per chi l'ha detto, sia per chi l'ha ascoltato.
Purtuttavia, inevitabilmente, si parla, si dice, perché sono le parole a comporci, a farci essere quello che siamo, anche nei nostri rassegnati silenzi. Anzi: il silenzio, il farsi muto davanti allo sfacelo, è un dire massimo, un dire inappellabile. Lui è stato zitto perché aveva tutte le ragioni per farlo. Le parole sono rimaste tutte dentro, non tanto inespresse, quanto essudate e subito volatilizzate in pensieri che non hanno bisogno dell'inchiostro o dei byte per essere rappresentati. Il silenzio è diventato la lingua di chi sa, ma non dice, né nasconde, bensì - come l'oracolo di Delfi - accenna.
Una piccola smorfia che dice tutto. Uno scrollare del capo che ribadisce. Un'alzata di spalle che chiude il discorso. Uno sbadiglio, un mezzo sorriso e chi ha orecchie per intendere, intenda.
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