Sono infilato dentro una Feltrinelli e c'era tanta gente che faceva di tutto fuorché leggere: mangiare, bere un cappuccino, ascoltare musica, grattarsi un orecchio con la punta di un lapis Ikea ritrovato casualmente in tasca, riscaldarsi, sbadigliare, fare la fila alla cassa, ma neanche un cristo con un libro aperto - e in mezzo a tanta sfiducia nel genere letterario ho preso un Carver a caso e l'ho ingoiato intero come un pellicano.
Una giovane ragazza dai capelli allegri e gli occhi tristi mi ha guardato prima sorpresa poi compiaciuta e mi ha detto: «Eh, meglio codesto che un McChicken». Dato che non si parla con la roba in bocca, non ho risposto, bensì annuito e le ho fatto altresì capire a cenni che, se voleva favorire, ancora qualche copia bella fresca di stampa c'era. Ma ha declinato: «Ancora credo nell'amore, nonostante quello stronzo del mio ragazzo faccia di tutto per non farmici credere». Avrei potuto dirle: «Dagli retta», ma non ho voluto, in fondo la letteratura nasce dalle circostanze, lo sguardo di una donna, per esempio, che ti tiene sospeso tra la terra e il cielo, a mezz'aria, in una condizione in cui è facile presentire l'oltre, ma quale oltre, il qui, ma quale qui, l'ora, eccola, e sia.
È in tale stato di grazia che può accadere di tutto, anche di salire sopra un treno sbagliato dove ti addormenti per digerire quello che hai letto, voglio dire quello che hai mangiato, quello che è entrato a far parte di te con un semplice scorrere dita tra le pagine. Poi quando ti svegli e ti accorgi che sei arrivato nella stazione sbagliata, capisci l'ovvio, che ciò che conta è il viaggio, ossia raccontarsi, anche lasciando i discorsi a mezzo, ogni volta ripresi ripartendo da quel punto nello spazio (una stella?) dove abbiamo lasciato appeso il filo del discorso.
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