«Son
due ore e mezzo che ci penso e ancora non ho scritto niente, perché
non riesco affatto a immaginare quello che mi ci vorrebbe per essere
felice. Mi sa che ci sono: per essere felice non ci vuole niente, la
felicità non è dentro una cosa o una persona, felice è essere
felice, tautologia pura. La felicità è uno stato, una condizione
che non è favorita da qualcosa di altro da sé: la felicità quando
c'è, c'è, quali che siano i conforti, i piaceri, le persone
accanto. Per parafrasare Tolstoj, ci sono migliaia di modi per essere
infelici, mentre per essere felici ce n'è uno solo: esserlo. Esserlo
da soli, oppure in due o in gruppo, è uguale. La felicità non è
una circostanza. È una stanza e basta, senza mura o chiavi. O ne sei
dentro o ne sei fuori, tutto qui. Forse adesso ci sono, posso
tentare la soluzione: la felicità si percepisce, si intuisce, la si
sfiora, ci si fa un passo dentro, a volte ci si entra ma poi lei si
sposta, fugge, e lo sbaglio più grande è inseguirla. Non si può. È
lei che ti viene incontro, di colpo, come un treno, lo stesso treno
che magari dopo la riporta via proprio nell'attimo in cui pareva a
portata di mano o di bacio. E ti volti per non vedere il treno
partire – perché rincresce a tutti veder partire la felicità –
e credi che, in effetti, felicità sia partita, ma al contempo
avverti una strana sensazione nella schiena, che non è un brivido ma
un irraggiamento, una concentrazione simultanea di benessere assoluto
che non può durare che un attimo, appunto, giusto dieci passi, il
tempo necessario per risalire in auto e cantare Now the radio
stutters, snaps to life».
Dopo che ebbe riletto quanto aveva scritto, il messo si ritenne soddisfatto e, per primo, si rimise al tavolo. Dato che tutti gli altri ancora erano impegnati, volle telefonare ai figli per sapere se stavano bene. I due più grandi non risposero. La piccola sì. Stava accompagnando la madre a fare un piercing. «Ti fai un piercing dove?» le chiese. «Non io, pa’, non io: è mamma che se lo vuole fare. Non mi chiedere dove».
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