«Non
solo le mie azioni che descrivo, ma me stesso, la mia essenza.
Ritengo che sia necessario esser prudente nel giudicare di sé, e
parimenti coscienzioso nel testimoniare, sia in male sia in bene,
indifferentemente. Se mi sembrasse di essere buono e saggio o quasi,
lo canterei a voce spiegata. Dire di sé meno di quel che si è, è
stoltezza e non modestia. Valutarsi meno di quel che si vale, è
vigliaccheria e pusillanimità, secondo Aristotele. Nessuna virtù si
giova della falsità; e la verità non è mai materia di errore. Dire
di sé più di quello che si è, non è sempre presunzione, spesso
anche questo è stoltezza. Compiacersi oltre misura di ciò che si è,
cadere in uno smodato amore di sé, è, secondo me, la sostanza di
questo vizio. Il supremo rimedio per guarirne è fare tutto il
contrario di quello che ordinano di fare costoro che, proibendo di
parlare di sé, proibiscono di conseguenza ancora di più di pensare
a sé. L’orgoglio risiede nel pensiero. La lingua non può avere
che una parte molto lieve. Occuparsi di sé, sembra loro che sia
compiacersi di sé; frequentare e praticare se stessi, amarsi troppo.
Forse. Ma questo eccesso nasce solo in coloro che non si saggiano se
non superficialmente; che vediamo attendere ai loro affari, che
chiamano fantasticheria e ozio occuparsi di sé, e fare castelli in
aria coltivarsi e costruirsi: ritenendosi un altro, estraneo a se
stessi.»
Montaigne,
Saggi, Libro II, Capitolo VI,
edizione Adelphi.
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