Sopra un certo limite, la città assorbe così tanto caldo che, al posto della percezione, subentra la visione. È impossibile, infatti, che tu, con un vestito senza spalline color vinaccia, camminassi sullo stretto marciapiede delimitato dalla rete metallica che protegge i lavori in corso, fermi, della futura tranvia, impossibile: eppure, anche se difficilmente lo eri, vedendoti, ho immaginato che fossi lì, per freddarmi, con la tua pistola ad acqua, alla quale aggiungevi sempre un decilitro di saliva, per colpirmi col tuo dna impoverito, che mi restava addosso a lungo, meglio di un deodorante, sino alla prossima doccia, che avrei fatto a Pasqua, per purgarmi dai peccati, che erano tanti, soprattutto in potenza, perché nel passaggio dalla potenza all'atto i miei peccati sono risultati sempre un fallimento.
Vederti, immaginarti in quel deserto di alberi e di persone, è stata una lenta e dolorosa rielaborazione del lutto, del tuo morirmi addosso senza poterti fare un funerale per bene, almeno sarei venuto a trovarti al cimitero, nella calma desolata di cipressi assetatati che si vedono passare accanto infrequenti annaffiatoi destinati, ahiloro, a rari fiori vivi che decorano le lapidi, le più seppellite, appunto, da amori di plastica.
Rapidamente, lo specchietto retrovisore ha rimpicciolito la tua figura, praticamente un puntino sui tacchi di sughero e colla, che il clacson di una macchina precipitosa ha fatto scomparire in una nuvoletta di vapore. Ci ho scritto dentro: vedi se ti riconosci e se almeno, per una volta, anziché sorridermi, compassionevole, mi mandi a fare in.
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