Michel Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1998 (pag. 45, traduzione di A. Fontana) |
Da quanto tempo è che non mi confesso, cattolicamente parlando? Non ricordo, davvero - e un po' me ne dispiace, giacché se me lo ricordassi potrei dire, qui e ora, quali peccati confessai al confessore, non mi ricordo neanche chi era, forse un frate che passava per caso prima di una messa, boh. Posso tuttavia fare delle ipotesi: sicuramente confessai qualche atto impuro («Quante volte figliolo?». «Una per ogni tetta di fuori delle ragazze Cin Cin, padre»), qualche litigio, qualche madonna, qualche mancanza di rispetto nei confronti dei genitori, poco più.
Poi avvenne che iniziai a trovare tale pratica riprovevole: andare da un prete a fingere di dire cose che neanche si ritengono peccati mi angosciava, già la parola “peccato” in sé mi sembrò insensata, e quindi dismisi il sacramento: mi confessavo da solo quelle poche volte che mi capitava di andare a messa e prendevo la comunione («O Signore non son degno di partecipare alla tua mensa ma di' soltanto una parola e io sarò salvato» e io, puntualmente, facevo finta che tale parola mi venisse detta).
Confessarsi resta, nondimeno, una buona pratica - certamente se svincolata da ogni meccanismo religioso e moraleggiante. Confessione come analisi di sé e del proprio vivere, cosa che, in parte, da alcuni anni, sia pure in modo indiretto, tra le righe, vado compiendo qui.
Non m'illudo che essa serva a qualcosa, tipo guarire da se stessi: buttarsi fuori sì, scatarrarsi l'anima, svuotarsi la mente, qualcosa del genere insomma, per liberarsi del troppo sé che conduce a un'inevitabile ipertrofia dell'io. Molti di questi ego pieni di sé, infatti, non camminano, no, volano, come mongolfiere.
A parte.
I politici che si definiscono pubblicamente cattolici praticanti, si confessano regolarmente? E, se sì, col prete confessore parlano anche di politica? Quanti Atti di dolore devono dire per lavarsi la coscienza?
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