«Un unico mezzo può
guarirci dall'essere noi stessi».
«Sì, ma in fondo,
importa meno essere guariti, che poter vivere».
Joseph Conrad, Lord Jim
«L'uomo
che di continuo, e inutilmente, si perde nell'impasse della sua
contingenza, e che si ritrova nel suo “essere-proprio-io”, come
se non avesse una vita alle spalle, e come se, ogni volta, fosse
appena nato, prosegue
la sua vita.
Quindi, il paradosso non sorge in un punto di partenza immaginario
situato “prima” della vita, quanto piuttosto nel bel mezzo della
vita stessa, della vita che continua a dispetto del paradosso e sotto
di esso, nella misura in cui l'uomo non fa del paradosso un pretesto
per porre fine a se stesso.»
Günther
Anders, Patologia della libertà, (Paris, 1936), Palomar, Bari
1993, traduzione di Antonella Stricchiola.
Innanzitutto,
per restare all'attualità politica. Il titolo del Saggio sulla
non identificazione di Anders, se reso sotto forma di acronimo,
rende un PdL: quasi quasi vado a Roma al Ministero degli Interni e
presento la mia bella lista civetta (coquette) usando, come
logo, un toupet color catrame con sfumature rossastre a mo' di
effetto olografico, tipo le banconote.
Di
poi, per entrare senza troppi riguardi in un'approssimativa analisi
critica del suddetto testo, penso: alzi la mano chi non è perso
nell'impasse della propria contingenza.
Il
paradosso della mia vita non è tanto da ricercare nella mia infanzia, nella mia giovinezza, al tempo della formazione dei miei desideri
primi, quanto nell'hic et nunc di quanto sto vivendo, e me lo
trascino, un giorno dopo l'altro, senza il coraggio o la forza di
entrare in conflitto con le mie insoddisfazioni. La quotidianità si
deposita sull'io come sabbia e lo copre a tal punto che, da una certa
età in poi, si stenta a individuarne i contorni. Passano gli anni e
si pensa che ci sia il bisogno di diventare archeologi del proprio
io, per riscoprirsi, portarsi alla luce. Ma è un compito inutile, o
quasi, dato che in pochi casi l'io si ripresenta in un perfetto stato
di conservazione. Allora, per approssimazione, ci inventiamo la
storia della nostra età dell'oro – da cui deriva, necessariamente,
una sorta di rimpianto per ciò che abbiamo perduto. L'ipocondria
attanaglia la mente e paralizza l'azione. Che fare? Prendere un
bulino e provare a incidere una traccia di ciò che desideriamo.
P.S.
Se un giorno, passasse il caso, mi prendesse voglia di farmi un tatuaggio (cosa improbabile, ma non voglio escludere niente a priori), beh l'incisione di Dürer offre numerosi simboli da prendere in considerazione.
2 commenti:
ta-tu-ag-gio! ta-tu-ag-gio!
non senti la folla acclamante che poi si aspetta una foto del tatuaggio messa qui? (sempre se lo fai in posti che poi si possono mostrare in rete)
E sicuramente tu sarai il capo ultras di quell'improbabile folla :-)
Scherzi a parte, se mi decido farò come dici.
Posta un commento