Sono stanco. Appoggio la fronte sul dorso delle mani distese sopra il tavolo di cucina, sì da occludere, come in una caverna, la luce bianca della lampada sopra me e il tavolo. Respiro lentamente e resisto al sonno, per quanto posso. Devo concentrarmi, devo rivedere ancora cinque minuti gli stessi occhi che stasera ho visto, ho rivisto, ho sognato di vedere. Come sono belli. Come mi fanno bene. Anche stasera vederli, seppur visti nel semibuio di una luce di lampione riflessa sull'asfalto bagnato, ha prodotto in me lo stesso incanto, la medesima emozione che travalica il contingente e mi proietta non so bene dove, in nessun luogo forse, dove ogni cosa sembra possibile. Occhi che parlano e labbra che guardano e io lì incantato ad assorbire per quanto possibile il concerto di quella presenza.
Il ritmo del respiro si fa ancora più lento. Mi rendo conto che, se mi addormentassi ora, molto probabilmente prenderei in sogno quella mano lì presente e la porterei in un posto in cui la nebbia, imbiancata dalla luna piena, darebbe a entrambi la netta impressione di camminare sulle nuvole, sospesi.
Sono troppo inquieto per lasciarmi andare a questo sonno, a questo sogno. La stessa inquietudine di un bambino che aspetta impaziente l'indomani per andare a giocare al suo sport preferito. Sollevo la testa dalla caverna. Gli occhi faticano un po' a riadattarsi alla luce bianca. Anticipo il lavaggio dei denti, così che lo scorrere dell'acqua mi restituisca un po' di lucidità. Potrei parlare di politica. Potrei parlare di economia, di filosofia, di religione. Potrei, sì, ma non mi va, non stasera, no. Stasera mi va di cantare.
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