«
Mi si ordinò di entrare nella casa di un contadino. Lentamente,
dondolando il capo, riassettandomi le bretelle, mi misi in cammino
sotto lo sguardo tagliente di quei signori. Avevo ancora la fiducia
che una mia parola sarebbe bastata a liberarmi, io, il cittadino, a
trarmi da quella folla di contadini, e anzi con onore. Ma quando ebbi
oltrepassato la soglia della stanza, il giudice, che mi era balzato
innanzi e già mi aspettava, disse: «Costui fa pena». Era evidente
che egli non alludeva alla mia condizione presente, ma a quel che
accadrebbe di me. La camera somigliava più a una cella carceraria
che alla stanza di una casa rustica. Grandi pietre disquadrate,
pareti scure e nude, in un punto un anello di ferro ribadito al muro,
in mezzo qualcosa che stava tra la branda e il letto operatorio.
Saprei ancora
respirare un'aria diversa da quella delle carceri? Ecco il gran
quesito, o meglio ecco quel che sarebbe il gran quesito se avessi
ancora la speranza di venir rilasciato. »
Franz Kafka, “Il
colpo contro il portone”, in Il messaggio
dell'imperatore, Adelphi, Milano
1981, vol. 2.
Due
pensieri a margine di un post di Olympe de Gouges: è difficile immaginare un mondo diverso perché,
come sosteneva Günther Anders, esiste
una discrepanza tra quello che l'uomo riesce a produrre e quello che
è in grado di immaginare. In altri termini: se fosse fatto un buon
uso delle immense possibilità della produzione, tutti al mondo al
mondo potremmo vivere bene. Cosa vuol dire fare buon uso della
produzione? Risolvere
una volta per tutte la contraddizione fondamentale che è in nuce nel
concetto di merce e cioè: nella società capitalistica si
producono merci non tanto per soddisfare bisogni, quanto – ed è
questo lo scopo primario – per valorizzare il capitale anticipato
per la produzione della merce stessa. In poche parole: il fine della
produzione è esterno alla merce, la merce è soltanto il mezzo
per avere indietro più di quanto è stato investito. La merce è
prodotta per valorizzare il capitale...
[continuo domani]
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