«Mandel'štam
non faceva nulla per andare incontro al lettore. Aveva bisogno di un
interlocutore, di qualcuno che lo ascoltasse quando leggeva i versi
appena composti, ma non del lettore. Non si preoccupava di educare il
lettore come i simbolisti, né di arruolarlo come i futuristi e poi i
“lefovci”. Credo che lo facesse perché portava rispetto al suo
potenziale lettore, e se c'è la stima non c'è bisogno di educare né
di arruolare.
Mandel'štam
considerava il lettore uguale se non addirittura migliore di sé, e
da lui si aspettava solo una “lettura partecipe”. Non usava
nemmeno la parola “lettore”. Il grido di dolore del 1937:
“Lettore, dolce consigliere, medico!” fu provocato dalla
sensazione dell'isolamento forzato nei giorni in cui non solo non era
possibile pubblicare i suoi versi, ma non li si poteva nemmeno
leggere per strada agli amici, ai conoscenti, perché la maggioranza
faceva finta di non riconoscerci. In condizioni più normali (non
posso dire “normali”, perché non ne abbiamo mai viste),
Mandel'štam
parlava non dei lettori, ma degli uomini: “Gli uomini conserveranno
le poesie, se ne avranno bisogno le troveranno da soli, trovano
sempre quello di cui hanno bisogno”».
Nadežda
Mandel'štam,
Le mie memorie,
Garzanti,
Milano 1972 (traduzione di Serena Vitale).
2 commenti:
lui conservò e qualcun altro trovò, a dispetto della ferocia carceraria del socialismo reale
nella frase finale echeggia marx
Sì. Chissà quanto e come sono studiati i letterati "martiri" del gulag in Russia adesso, se avranno avuto completa riabilitazione, o se l'accademia vigente - assai zelante col regime in corso - li considera ancora maestri del sospetto.
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