«Quante
cazzate», pensò Lorena, a voce un po’ troppo alta.
Quarantotto anni, ma chi c'avrebbe creduto se, con malcelato orgoglio, non l'avesse detto, Lorena aveva una grazia naturale e una sensualità che neanche un pigiama irge con l'elastico rotto sarebbe riuscito a nascondere. Lunghi capelli rossi e ricci nei quali soltanto a un'attenta analisi potevi intravvedere qualche filo argentato; un fisico estremamente tonico ma, al contempo, armonioso, che raggiungeva la sua sintesi perfetta nel fondoschiena; unico difetto, se si poteva chiamare tale, era il naso leggermente ricurvo che tuttavia le conferiva un fascino rinascimentale.
Quarantotto anni, ma chi c'avrebbe creduto se, con malcelato orgoglio, non l'avesse detto, Lorena aveva una grazia naturale e una sensualità che neanche un pigiama irge con l'elastico rotto sarebbe riuscito a nascondere. Lunghi capelli rossi e ricci nei quali soltanto a un'attenta analisi potevi intravvedere qualche filo argentato; un fisico estremamente tonico ma, al contempo, armonioso, che raggiungeva la sua sintesi perfetta nel fondoschiena; unico difetto, se si poteva chiamare tale, era il naso leggermente ricurvo che tuttavia le conferiva un fascino rinascimentale.
Il
messo la ricordava bene: tre lustri prima d'allora, una sera in
pizzeria, un compleanno di un amico lui, lei sola, stranamente sola
al tavolo (seppe poi che era la sera del suo primo divorzio), i suoi
occhi caddero su di lui e viceversa i suoi su di lei, sorrisi,
boccali di birra che si levano a distanza ma nello stesso momento a
sorseggiare la medesima, amarissima, birra alla spina, lei che si
alza, la minigonna nera e i collant che misericordia, e lui, il messo
che si alza e come lei va in bagno, anticamera di separazione tra
signori e signore, lo specchio, un grande specchio, i lavandini con
il rubinetto a pressione del piede, lei coi tacchi che non sa bene
far uscire l'acqua, provvidenziali polacchine dal plantare largo lui,
sorrisi, lei: «Conosco tuo fratello», lui: «Non importa», lei «Lo
sai che hai un bel sorriso?», e lui «Sei sola, bevi qualcosa?»,
lei: «No, preferisco uscire», lui: «Se vuoi ti accompagno, ho qui
la macchina», lei: «Va bene», sportelli che chiudono, «Sai
conosco tuo fratello? Siamo stati scuola insieme io e lui», e lui,
tra sé: «Che cazzo me ne frega di mio fratello», a lei «Ah sì?
Non importa. Sai che mentre bevevi quella birra e io bevevo la mia,
pensavo a una cosa», e lei: «Ah sì? A che cosa?», e lui: «Se un
bacio può far sparire l'amaro».
Perché
era lì Lorena? Quali risposte cercava, quali dilemmi esistenziali
era in animo di affrontare ed eventualmente risolvere? La morte di
suo padre l'aveva situata in una condizione inedita: occuparsi di sé,
dover provvedere a se stessa alla sua età. A parte una casa vacanza
in una stazione climatica, a Lorena restava ben poco con cui poter vivere. La vendette, ma i soldi del realizzo furono sufficienti
per un paio d'anni per tirare avanti, dopodiché fu costretta a
ricordarsi del suo diploma di maestra, fare domanda al provveditorato
per entrare in graduatoria per le supplenze e, appunto, andare a
lavorare. Scuola dell'infanzia, ex asilo. Ma lavorare stanca. Tre
giorni e tre capelli bianchi. Un semestre e i primi sintomi di
menopausa. Non sapeva come uscirne. Nondimeno, era l'unico modo al
momento che conosceva per sussistere. Esistere era un'altra cosa.
L'unica figlia che aveva avuto dal primo matrimonio, oramai
maggiorenne, la guardava oramai con la pena di un figlio che,
in un certo senso, più che altro si vergogna di quello che la madre
è diventata. «Non mi guardare con quella faccia, ti prego», le
diceva. «Non ti guardo, mamma, non ti guardo, perché se ti guardo
la prossima settimana non vengo, resto da mio padre».
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