Non ho mai amato la tua incapacità di
essere amata, il tuo rifiuto di essere oggetto di un desiderio che
non ti appartiene. Ti vedi, con gli occhi della mente e dello
specchio, e ti domandi, non tanto come si possa amare qualcuna come
te, ma perché amarla se quell'io, tu stessa, non lo ami abbastanza.
A volte, certo, presti ascolto alle lusinghe e alle dolci parole che
ti si rivolgono, alle carezze, anche. Ma in te, che solitamente sei
una generosa scambiatrice di sentimenti, improvvisamente reciprocità
si blocca e senti che lo scambio non è possibile, avverti il peso
della ricezione e non gonfi: soffi fuori. Così avviene che le
carezze ti facciano diventare rigida, le lusinghe ti infastidiscano e
le dolci parole ti provochino irritazione. E resti lì, in balia di
una presunta autonomia, che sai benissimo fasulla e che tenti in
tutti i modi di comunicare per non manifestare la tua debolezza –
che sarebbe interpretata come richiesta di aiuto – e il sarcasmo lo
tieni ben nascosto, perché in te fa ancora breccia la necessità di
non essere adirata con il prossimo.
Molti nemici molto onore è una
formula che ti ha sempre spaventata: preferisci, molti
indifferenti meno dolore e rimani dentro il cerchio di una vita
che non riesci ad aprire nella prospettiva della linea retta.
Il modo migliore per soccombere alla
malattia dell'individualismo è credere che si è soli a provare
certe cose, che la vera comunione con gli altri sia impossibile da
praticare e che la cifra sia scommettere sulla superficie dell'io,
non nella sua interiorità. Ma ti senti ogni giorno inadeguata a
questa sfida assurda, che t'impone l'idea di avere sempre davanti una
telecamera interessata ai tuoi gesti e alle tue emozioni. Non è
così, tu sei la stessa che
«se ti metti supina
diventa, calmandosi, solo dolcezza
il peso del tuo seno. Di colpo non
c'è
bisogno di nasconderlo, non si può
più giocare perché è tenero e spento
e innocente e basta.»*
Il cruccio è che
questo «e basta» non ti basti, perché pensi di rimpiangere tutta
la lista dei possibili che l'immaginazione non tiene a freno. È così
che ti condanni all'inquietudine.
*I versi sono del breve poemetto di Giovanni Raboni, L'intoppo, in Cadenza d'inganno (1970), preso dalla raccolta di Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2000
4 commenti:
Mi hai messo addosso un po' - solo un po', per fortuna - di inquietudine. Sì, proprio quella che citi in chiusura :-)
Quel che sarebbe interessante sapere, e' chi è questa supina per te.
cara Pellona, premesso che si tratta di un mero artifizio letterario - la "supina" in oggetto, quindi, è un personaggio inventato - confesso che, alle prime battute, il "tu" al quale mi rivolgevo era maschile e molto personale - ma poi ha vinto, banalmente, il tentativo d'imitare la lezione flaubertiana.
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