«La
curva li buttò contro la porta, le mani scivolarono fino a unirsi
all'estremità della sbarra. La ragazza continuava a parlare,
scusandosi scioccamente: Lucho sentì nuovamente le dita del guanto
nero arrampicarsi sulla sua mano e stringerla. Quando lei lo lasciò
bruscamente mormorando un saluto confuso non c'era che una cosa da
fare, seguirla lungo il corridoio della stazione, mettersi al suo
fianco e cercarle la mano quasi smarrita a testa in giù alla fine
della manica, a dondolarsi senza scopo.
–
No,
– disse la ragazza. – Per favore, no. Mi lasci andare da sola.
–
Ma
certo, – disse Lucho senza liberare la mano. – Ma non mi piace
che se ne vada così, adesso. Se avessimo avuto più tempo nel
metro...
–
A
che scopo? Cosa serve aver più tempo?
–
Forse
avremmo finito per trovare qualcosa, insieme. Qualcosa da fare,
contro di loro, voglio dire.
–
Ma
lei non capisce, – disse la ragazza. – Lei pensa che...
–
E
chi lo sa che cosa penso, – disse onestamente Lucho. – Chi lo sa
se c'è da queste parti un caffè dove fanno un buon caffè, e se
esiste questo caffè, perché questo quartiere quasi non lo conosco.
–
C'è
un caffè, – disse lei, – ma è cattivo.
–
Non
neghi che l'abbia fatta sorridere.
–
Non
lo nego, ma il caffè è cattivo.
–
Comunque
esiste un caffè da queste parti.
–
Sì,
– disse lei, e questa volta lo guardò sorridendo. – Esiste un
caffè ma il caffè è cattivo, e lei crede che io...
–
Io
non credo niente, – disse lui, ed era maledettamente vero.»
Julio
Cortázar,
“Collo di gattino nero”, Ottaedro,
Einaudi,
Torino (traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini).
Neanch'io credo a niente, tantomeno alla ripetizione. È opportuno, quindi, su quei fogli non ci sia scritto niente – perché sarebbe faticoso e forse inutile rileggerli – e tentare di ripercorrere le istruzioni che hanno portato a questa sospensione, come di gancio appeso al cielo, a pensare soprattutto all'atterraggio, che richiede più saggezza e più pazienza del decollo.
A cosa serve avere più tempo, appunto? A sprecarlo, minuti come perline del rosario, io, da piccolo, tra le gambe della nonna e della zia, preferivo sempre la seconda parte, quella dove si rammenta l'ora della nostra morte, amen.
Crescendo si comprende l'insensatezza delle preghiere e delle intercessioni ultraterrene, ma non si resta delusi finché si riesce a restare padroni dell'equilibrio che permette, a tratti, di compiere passi felpati, di velluto, in momentanea assenza di gravità. Abitati dalla leggerezza e dal sorriso che muove il simpatico (probabili innatismi), si finisce sempre per trovare qualcosa d'incantevole, non per nutrire speranze, no, ma le nostre radici.
Riecco la terra. Diventeremo petrolio.
Una vocina.
Dato il trambusto digestivo, più facilmente gas metano.
Nessun commento:
Posta un commento