«Il
passo cruciale fu costituito dalla trasformazione del lavoro e della
terra in merci; ossia, essi furono trattati come se
fossero stati prodotti per essere venduti. Naturalmente essi non
erano propriamente merci, poiché non erano affatto prodotti (terra),
oppure lo erano ma non a scopo di vendita (lavoro).
Eppure
non fu mai escogitata finzione più efficace. Poiché il lavoro e la
terra erano acquistati e venduti liberamente, furono inseriti nel
meccanismo del mercato. Ora vi era un'offerta e una domanda di
lavoro, e un'offerta e una domanda di terra. Di conseguenza, vi era
un prezzo di mercato, detto salario, per l'uso della forza lavoro, e
un prezzo di mercato, detto affitto, per l'uso della terra. Il lavoro
e la terra disponevano di propri mercati, simili a quelli delle merci
vere e proprie prodotte con il loro ausilio.
La
vera portata di un passo del genere può essere valutata se teniamo
presente che “lavoro” e “terra” non sono altro che modi
alternativi di definire, rispettivamente, l'uomo e la natura. La
finzione della merce affidò il destino dell'uomo e della natura al
giuoco di un automa che si muoveva nelle sue guide ed era governato
dalle sue leggi. Questo strumento di benessere materiale era
controllato esclusivamente dagli incentivi della fame e del guadagno;
o, per l'esattezza, dal timore di rimanere senza mezzi di sussistenza
o dall'aspettativa di profitto. Fintantoché nessun individuo privo
di proprietà poteva soddisfare il suo bisogno di cibo senza aver
prima venduto il suo lavoro sul mercato, e fintantoché non si poteva
impedire ad alcuna persona dotata di proprietà di acquistare nei
mercati meno cari e di vendere in quelli più cari, quella sorta di
cieca macina avrebbe continuato a sfornare quantità sempre maggiori
di merci a vantaggio della razza umana. La paura della fame per il
lavoratore, l'allettamento del profitto per il datore di lavoro,
avrebbero mantenuto in moto quel vasto meccanismo.»
Karl
Polanyi, La sussistenza dell'uomo,
Einaudi, Torino 1983, pag. 33-34 (traduzione di Nanni Negro).
Lo
so che, gradualmente, la modernità ha proposto
molteplici sfaccettature della summenzionata
finzione; e, tuttavia,
sempre e soltanto due sono le reali parti in causa: coloro che
lavorano o cercano di lavorare per sopravvivere
(procurarsi i mezzi necessari per la sussistenza) non avendo altro da
vendere che la
propria forza lavoro; e coloro che posseggono, i proprietari, i
quali vendono o cercano di
vendere le merci prodotte (la
cui produzione è data dall'impiego della terra e/o
dei mezzi di produzione unitamente
all'acquisto di forza lavoro)
avendo come scopo primario
non la sussistenza, bensì
il profitto.
Poi
accade che nel mondo variopinto ci siano varie eccedenze: di merci (e
fanculo al surplus di invenduto)
e di individui che, per vari motivi, non riescono a vendere la loro
forza lavoro – e faticano a sussistere.
Di
questa finzione economica l'umanità è schiava. O meglio: alcuni,
pochi, grazie a questa
finzione, schiavizzano la
maggioranza della popolazione mondiale, beninteso a norma di legge.
Stringo.
Ultimamente, lo ammetto, mi sento un pochino testadicazzo, ma se
qualcuno sotto Natale propone (via
sms per es.)
di donare 2 euro per la mera sussistenza dei profughi siriani, senza
accennare minimamente al
perché manco un'oncia di tutta la ricchezza prodotta è loro
concessa, gli orino al centro. E senza tirare lo sciacquone.
3 commenti:
Ecco un modo interessante per trasformare la "finzione" in "minzione" : )
tu a marcel duchamp gli pisci in testa. ciao caro.
Ottima, grazie, te la rubo :-)
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