lunedì 19 gennaio 2015

Ladri di valore

Scrive Federico Fubini su Repubblica odierna:
«Nel 2008 la ricchezza netta accumulata del 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio complessivo delle dieci famiglie più ricche del Paese. I 18,1 milioni di italiani più poveri in termini patrimoniali avevano, messi insieme, 114 miliardi di euro fra immobili, denaro liquido e risparmi investiti. Le dieci famiglie più ricche invece arrivavano a un totale di 58 miliardi di euro. In altri termini persone come Leonardo Del Vecchio, i Ferrero, i Berlusconi, Giorgio Armani o Francesco Gaetano Caltagirone, anche coalizzandosi, arrivavano a valere più o meno la metà di un gruppo di 18 milioni di persone che, in media, potevano contare su un patrimonio di 6.300 euro ciascuno.»
Manca qualcuno?
CDB.
Questo non si dice, questo non si fa.
E io che sono Carletto l'ho fatta nel letto, l'ho fatta nel letto, l'ho fatta per fare dispetto che bello scherzetto per mamma e papà.

Continua Fubini:
«Chi è già povero si impoverisce più in fretta. Nel 2013 quei 30 milioni di italiani avevano nel complesso 829 miliardi (mentre gli altri 30 controllavano gli altri 8500). Nel 2008 però quegli stessi 30 milioni di persone avevano (in euro 2013) per l’esattezza 935 miliardi. Dunque la "seconda" metà del Paese durante la Grande Recessione è andata giù dell’11,3% in termini patrimoniali. La prima metà invece, i 30 milioni di italiani più ricchi, è scesa dell’8,2%. Gli uni non solo erano molto più poveri degli altri prima della crisi: si sono impoveriti di più durante. Tutt’altro Paese invece per le prime dieci famiglie. La loro ricchezza netta sale di oltre il 60% in termini reali fra il 2008 e il 2013 e la loro quota sul patrimonio totale degli italiani aumenta. Cambia però anche un altro dettaglio: la loro composizione. I più ricchi del 2013 non sono gli stessi del 2008 o del 2004 e per certi aspetti formano una lista più interessante. Ora nel gruppo si trovano famiglie meno dedite alle rendite di posizione, alla speculazione pura o al rapporto con la politica per fare affari. Adesso dominano i primi posti imprenditori più impegnati nella creazione di valore, lavoro e manufatti innovativi che interessano al resto del mondo» 
Concentriamoci sull'ultima frase: 
«Adesso dominano i primi posti imprenditori più impegnati nella creazione di valore, lavoro e manufatti innovativi che interessano al resto del mondo».
Chi è che crea valore? Capitale + lavoro umano. E come creano valore gli imprenditori? Prendendo il plusvalore contenuto nel lavoro, perché in ogni lavoro retribuito è contenuta una quantità di lavoro non retribuito, di cui i prenditori di lavoro si appropriano, ahimè, legalmente. 
Questo, gli economisti fighetti, che titillano i capezzoli dei buon cuori che ancora si dicono convinti elettori di sinistra, non lo dicono. Puntuali, fanno notare che esistono disuguaglianze intollerabili, ma - per carità - non spiegano affatto perché esistono e perché si estendono a dismisura. Ma soprattutto: non lo dicono, perché rifiutano l'unica scoperta scientifica sulla produzione di plusvalore in grado di rivelare perché nell'economia capitalistica si producano siffatte, aberranti, storture.
Chi fece questa scoperta? Un signore tedesco, di origine ebrea, con la barba e il capello allungato.
Cosa scoprì questo signore? La dinamica dei rapporti tra capitale e lavoro e come da questi sgorghi copioso il plusvalore. 
Ma adesso lasciamolo parlare, ché tanto meglio di lui è difficile spiegare (la citazione sarà estesa ma non posso fare altrimenti: è uno dei passi più belli e importanti de Il Capitale):


«Il capitalista ha comperato la forza-lavoro al suo valore del giorno. Gli appartiene il valore d’uso di essa durante una giornata lavorativa. Ha dunque acquisito il diritto di far lavorare l’operaio per sé durante una giornata. Ma, che cos’è una giornata lavorativa? In ogni caso, è meno di un giorno naturale di vita. Quanto meno? Il capitalista ha la sua opinione su questa ultima Thule che è il limite necessario della giornata lavorativa. Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia. Il tempo durante il quale l’operaio lavora è il tempo durante il quale il capitalista consuma la forza-lavoro che ha comprato. Se l’operaio consuma per se stesso il proprio tempo disponibile, egli deruba il capitalista.
Dunque il capitalista invoca la legge dello scambio delle merci. Come ogni altro compratore, cerca di spremere dal valore d’uso della sua merce la maggiore utilità possibile. Ma all’improvviso s’alza la voce dell’operaio, che era ammutolita nell’incalzare e nel tumulto del processo di produzione:
La merce che ti ho venduto si distingue dal volgo delle altre merci per il fatto che il suo uso crea valore, e valore maggiore di quanto essa costi. E per questa ragione tu l’hai comprata. Quel che dalla tua parte appare come valorizzazione del capitale, dalla mia parte è dispendio eccedente di forza-lavoro. Tu ed io, sul mercato, conosciamo soltanto una legge, quella dello scambio di merci. E il consumo della merce non appartiene al venditore che la aliena, ma al compratore che l’acquista. A te dunque appartiene l’uso della mia forza-lavoro quotidiana. Ma, col suo prezzo di vendita quotidiano, io debbo, quotidianamente, poterla riprodurre, per poterla tornare a vendere. A parte il logorio naturale per l’età ecc., io debbo essere in grado di lavorare domani nelle stesse condizioni normali di forza, salute e freschezza di oggi. Tu mi predichi continuamente il vangelo della «parsimonia» e della «astinenza». Ebbene: voglio amministrare il mio unico patrimonio, la forza-lavoro, come un ragionevole e parsimonioso economo e voglio astenermi da ogni folle sperpero di essa. Ne voglio render disponibile quotidianamente, mettendolo in moto e convertendolo in lavoro, soltanto quel tanto che è compatibile con la sua durata normale e col suo sano sviluppo. Tu puoi mettere a tua disposizione, in un solo giorno, con uno smoderato prolungamento della giornata lavorativa, una quantità della mia forza-lavoro maggiore di quanta io ne possa ristabilire in tre giorni. Quel che tu guadagni così in lavoro, io lo perdo in sostanza lavorativa. L’uso della mia forza lavorativa e il depredamento di essa sono cose del tutto differenti. Se il periodo medio nel quale un operaio medio può vivere, data una misura ragionevole di lavoro, ammonta a trent’anni, il valore della mia forza-lavoro, che tu mi paghi di giorno in giorno, è  [1 : (365 x 30)] cioè, 1 : 10.950 del suo valore complessivo. Ma se tu la consumi in 10 anni, tu mi paghi quotidianamente 1/10.950 del suo valore complessivo, invece di 1/3.650: cioè mi paghi soltanto un terzo del suo valore giornaliero, e mi rubi quindi quotidianamente due terzi del valore della mia merce. Tu mi paghi la forza-lavoro di un giorno, mentre consumi quella di tre giorni. Questo è contro il nostro contratto e contro la legge dello scambio delle merci. Io esigo quindi una giornata lavorativa di lunghezza normale, e lo esigo senza fare appello al tuo cuore, perchè in questioni di denaro non si tratta più di sentimento. Tu puoi essere un cittadino modello, forse membro della Lega per l’abolizione della crudeltà verso gli animali, per giunta puoi anche essere in odore di santità, ma la cosa che tu rappresenti di fronte a me non ha cuore che le batta in petto. Quel che sembra che vi palpiti, è il battito del mio proprio cuore. Esigo la giornata lavorativa normale, perché esigo il valore della mia merce, come ogni altro venditore.
È evidente: astrazione fatta da limiti del tutto elastici, dalla natura dello scambio delle merci, così com’è, non risulta nessun limite della giornata lavorativa, quindi nessun limite del pluslavoro. Il capitalista, cercando di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa e, quando è possibile, cercando di farne di una due, sostiene il suo diritto di compratore. Dall’altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, mentre l’operaio, volendo limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata, sostiene il suo diritto di venditore. Qui ha dunque luogo una antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci.
Fra diritti eguali decide la forza.

Così nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa — lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia.»
Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione III, Capitolo 8.


Suggestione: se qualcuno in parlamento leggesse pari pari il brano sopra riportato, quanto ascolto riceverebbe? Per esempio: se lo leggessero, una frase ciascuno, Matteo Orfini Roberto Speranza cosa succederebbe?

Si bagnerebbero i pantaloni.

E io che sono Carletto, l'ho fatta nel letto... eccetera.


6 commenti:

UnUomo.InCammino ha detto...

Mmh.
La provocazione è... che non si può esigere nulla. Se non vuoi essere sfruttato, ti metti in proprio, eventualmente cooperando con altri soci lavoratori e ti affranchi, diventi respons-abile e fornisci una risposta al tuo anelito di non-sfruttamento.
Ma cosa cosa succede così spesso? L'organizzazione di sistemi produttivi complessi è complessa e non tutti hanno attitudine e/o competenze. Che gli ex sfruttati diventano sfruttatori.
Perché? Perché non c'è una presa di distanza etica dal modello duale capitalismo parassitario – consumismo sociale.
La lotta non è sul modello è sul livello: tutta la piramide, in ogni suo livello, è composta da individui in cui il desiderio è salire ovvero avere più strati sotto di sé da sfruttare.
Inoltre c'è la scala. La scala globalizzata è un catalizzatore incredibile nel rompere i cicli, rompere l'umanità e quindi l'etica delle relazioni economiche, nel garantire sfruttamento in grande e anche omologazione nelle sue subdole forme (religiose, o neoreligiose come il consumismo, il dirittismo, il servizismo, l'ignorare i limiti).

Inoltre l'ingordigia permea gran parte della popolazione di homo. Il capitalismo privato è intrinsecamente biologico e per questo vincente rispetto alla irrazionale razionalità del marxismo e quindi del capitalismo di stato, collettivo.
Mao diceva che gli operai (ora anche quelli intellettuali) non sono altro che piccoli borghesi.
Piccoli borghesi con pulsioni e desideri borghesi.
Vorrei ma non posso.

Luca Massaro ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Marino Voglio ha detto...
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
Luca Massaro ha detto...

@ Marino
Ho tolto il tuo commento hai ragione. Se non avevi ragione l'avrei tenuto.
Se l'avessi tenuto avrei avvalorato la tua giusta obiezione e, appunto, mi sono accorto di aver fatto una cazzata nella pubblicazione del commento anonimo perché, arippunto, penso che le offese vadano firmate e motivate.
Scusame.

Marino Voglio ha detto...

luca "magis amica" massaro.
che bravo. malvino (o chi in sua vece), per dire, mica ragiona così.

Luca Massaro ha detto...

Grazie per la comprensione.
Ma Malvino ragiona mejo de me