«Spesso
affermiamo, soprattutto di fronte a noi stessi, e così ci
autogiustifichiamo, di conoscere una cosa, di conoscerla a fondo, e
che perciò l'argomento è chiuso, soltanto per non doverci più
preoccupare di pensare a quella cosa (o persona), perché temiamo di
doverci vergognare di questa preoccupazione, e così perdiamo ogni
credibilità di fronte a noi stessi, egregio signore, poiché il peso
– di cui dobbiamo considerare il pericolo mortale – che ci
sobbarcheremmo col preoccuparci di quella cosa (o persona!), vista la
poca stima che abbiamo di noi, ci fa paura.»
Thomas
Bernhard, La partita a carte, Einaudi,
Torino 1983 (traduzione di Magda Olivetti, pag. 30).
Ho pensato per una notte intera a cosa potesse essere questa ‘cosa’ (questa ‘persona’) e l'unica cosa (l'unica persona) che mi è venuta in mente (che, in altri termini, ho sognato) è stata una ragazza, che conobbi quando anch'io ero un ragazzo, e quella ragazza mi piaceva e di lei mi preoccupavo, mi preoccupavo così tanto che un giorno glielo dissi e lei mi disse che ero tutto scemo, «che cosa vuoi, conoscermi a fondo?» Beh, sì, l'avrei voluto, ma temevo di dovermi vergognare nel dirglielo apertamente e così restai in superficie a solleticare le sue labbra sottili come foglie di acacia, le stesse foglie che sfioravano le nostre sopracciglia in quella primavera in cui lei acconsentì di venire con me a passeggiare nel bosco. Aveva un giubbotto di jeans chiaro chiaro, e una cintura spessa nera che sosteneva pantaloni dello stesso materiale e colore. Solo lo spessore delle sue anche conobbero le mie mani che provavano, timide, a superare una certa resistenza a che andassero oltre. Fu in quel momento che lei ruppe l'incantesimo parlandomi del suo ragazzo che era in servizio militare e bla bla bla. L'unico modo che ebbi per interromperla fu uno starnuto: allergia alla superficie.
Ho pensato per una notte intera a cosa potesse essere questa ‘cosa’ (questa ‘persona’) e l'unica cosa (l'unica persona) che mi è venuta in mente (che, in altri termini, ho sognato) è stata una ragazza, che conobbi quando anch'io ero un ragazzo, e quella ragazza mi piaceva e di lei mi preoccupavo, mi preoccupavo così tanto che un giorno glielo dissi e lei mi disse che ero tutto scemo, «che cosa vuoi, conoscermi a fondo?» Beh, sì, l'avrei voluto, ma temevo di dovermi vergognare nel dirglielo apertamente e così restai in superficie a solleticare le sue labbra sottili come foglie di acacia, le stesse foglie che sfioravano le nostre sopracciglia in quella primavera in cui lei acconsentì di venire con me a passeggiare nel bosco. Aveva un giubbotto di jeans chiaro chiaro, e una cintura spessa nera che sosteneva pantaloni dello stesso materiale e colore. Solo lo spessore delle sue anche conobbero le mie mani che provavano, timide, a superare una certa resistenza a che andassero oltre. Fu in quel momento che lei ruppe l'incantesimo parlandomi del suo ragazzo che era in servizio militare e bla bla bla. L'unico modo che ebbi per interromperla fu uno starnuto: allergia alla superficie.
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