«L'uomo
del nostro tempo ha sovente la sensazione che la sua vita privata sia
tutta una serie di trabocchetti e che i suoi problemi, le sue
difficoltà, trascendano la ristretta cerchia in cui vive. Sensazione
il più delle volte esatta: l'esperienza e l'azione dell'uomo
ordinario sono circoscritte alla sua orbita personale; la sua visuale
e i suoi poteri non oltrepassano i limiti dell'impiego, della
famiglia, del vicinato; in ambienti diversi dal proprio si muove
male, rimane spettatore. E quanto più si fa strada in lui la
coscienza, ancorché vaga, di ambizioni e di minacce che trascendono
il suo mondo d'ogni giorno, tanto più gli pare d'essere in
trappola.»
C.
Wright Mills, L'immaginazione sociologica, Il
Saggiatore, Milano 1962 (p. 13).
So
di essere in trappola e conosco pure i confini della mia prigione. Ma
che faccio? Evado? Francamente, mi sembrerebbe più di fare da cavia
fuori che dentro la gabbia in cui sono (e mi sono, quanto mi sono?)
più o meno comodamente precipitato. Oh, certo: un giorno ho fatto
capolino fuori, senza permesso, e qualche boccata d'aria nuova l'ho
presa, ma ho avuto paura, tirava un forte vento, non sapevo a chi
santo raccomandarmi, ho visto petali di ciliegio impazziti svolazzare
lontani e io, io mi sono detto: i frutti maturano attaccati ai rami
dell'albero. E anche le foglie cadono dai rami.
Tutto
molto poetico, vero, con la faccenda delle radici a nobilitare il
tutto. D'altronde, essere dei fingitori serve anche a questo: a prestare più attenzione agli spazi e ai vuoti che a fissare lo sguardo, inutilmente, sulle sbarre.
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